mercoledì 9 ottobre 2024

Robecchi

 

Manovra. La neolingua del “proletario” Giorgetti nasconde la parola “sacrifici”
di Alessandro Robecchi
La manovra è un venticello, proprio come la calunnia nella cavatina di Rossini. Una cosa che arriva piano, si insinua, si maschera e si nasconde, occhieggia timida, poi si presenta in tutto il suo splendore, viene smentita, torna dietro le quinte e poi – pum! – arriva sulle nostre teste. Con voto di fiducia. I mercati annuiscono contenti, i commentatori ci ricordano che “non esistono pasti gratis”, mentre milioni di italiani cercano di ricordarsi quando è stata l’ultima volta che hanno avuto un pasto gratis. Mai.
È così prevedibile, il percorso ad arabesco dell’avvicinamento alla famosa manovra, che sembra ormai una linea dritta: potremmo dare a un notaio l’esito finale in busta chiusa e verificare poi che ci abbiamo azzeccato. Gli attori sono un po’ diversi, a questo giro, e in primis il Giorgetti bifronte, quello che può stare sul prato di Pontida, davanti a centinaia di gentiluomini che inveiscono contro “i terroni”, e nei vertici di Bruxelles, dove “i terroni” siano noi. Divertente notazione: davanti allo zoccolo duro leghista del prato, Giorgetti ha ricordato le sue origini popolari: il padre pescatore e la madre operaia tessile, come dire: ma vi pare che prenderò soldi ai poveri? Però il Giorgetti di oggi non è né pescatore né operaio, è ministro, e quindi i soldi ai poveri li prenderà eccome: meno sanità pubblica, meno scuola pubblica, meno welfare e servizi in generale. Un po’ brutale, vero? Se volete qualcosa di più liftato ed elegante potete prendere le frasi affusolate della Corte dei Conti, segnatevele: “Riconfigurare il volume delle prestazioni e dei sevizi che la collettività riceve dall’operatore pubblico”. Lo vedete l’uccello padulo che vola?
Siccome veniamo da mesi e mesi in cui la banda Giorgia ci inonda di post ottimisti e di meme trionfali in cui annuncia la ripresa dell’Italia, la Grande Rivincita, la crescita in ogni settore possibile e immaginabile, il fatto che il Pil passi da un più uno per cento sbandierato a un più 0,7-0,8 incrina un po’ la sicumera imperante. Non si cresce come promesso e servono quindici miliardi sull’unghia, che si prenderanno con piccoli impercettibili ritagli qui e là, e poi con la solita mannaia. La neolingua farà il suo lavoro come sempre: “rimodulazione”, “efficientamento”, “razionalizzazione”, tutte parole che stanno nel vocabolario per dirne un’altra: “tagli”.
Niente di nuovo, per carità, anche se si capisce una certa nostalgia per i titoloni di qualche anno fa sul Pnrr che ci avrebbe coperto d’oro, e anche le intemerate del ministro Brunetta – Draghi regnante – che andava in estasi per il Pil al più sei, al più sette per cento, che sembrava folgorato sulla via del boom italiano (che derivava tutto dai cantieri dei vari bonus, oggi accusati di ogni male), e lo spacciava per merito suo. Quello che proprio non si riesce a tagliare è il ridicolo.
Dunque prepariamoci: nel giro di un paio di mesi il venticello della manovra diventerà articoli, commi, allegati, emendamenti, che diventeranno cifre, che diventeranno – parola usata da Giogretti – “sacrifici”. Ci sarà un’impennata della solita retorica della grande rapina al treno: “Siamo tutti sulla stessa barca”, “Tutti devono contribuire” e altre amenità confortanti, oltre alla beffa di dire a chi non arriva alla fine del mese che “vive al di sopra delle proprie possibilità”. Si minaccerà di mandarli in pensione a settant’anni, questi mangiapane a tradimento. Anche i pescatori, anche le operaie tessili, con buona pace del Giorgetti proletario di Pontida.

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