Zero popoli zero Stati
DI MICHELE SERRA
È legittimo “chiamarsi fuori dalla discussione” a proposito di Israele, Palestina e dintorni, come sostiene Paolo Giordano sul Corriere della Sera, perché il dibattito è ampiamente corrotto (l’aggettivo, molto efficace, è dello stesso Giordano) dalla insopportabile incapacità delle parti in causa di prendere in considerazione non dico le idee, ma le vite stesse delle persone coinvolte “dall’altra parte”?
Non so se sia davvero giusto farlo; se non comporti il rischio di un atteggiamento cerchiobottista, o pilatesco, o semplicemente pigro; ma credo sia comunque inevitabile farlo, se non altro per dignità intellettuale. Se serve a qualcosa leggere, scrivere, pensare, deve servire prima di tutto a difendere i connotati della realtà tutti insieme: quelli comodi e quelli scomodi. Manifestazioni come quella romana, disperatamente incapace di riconoscere nel pogrom del 7 ottobre i connotati della disumanità, sono penosamente speculari a omissioni uguali e contrarie. Ho ascoltato, sulla Sette, una lunga intervista a Bernard-Henri Lévy che sciorinava, inamovibile, autorevole, impenetrabile a qualunque obiezione, una serie infinita di ragioni di Israele nel nome delle quali non esisteva altra possibile ragione. Ovvero: o Noi, o Loro.
Non può funzionare così. O meglio, finché funziona così l’annientamento reciproco (che è figlio della disumanizzazione reciproca) è la sola strada percorribile: e difatti, è quella che si sta percorrendo. Zero popoli, zero Stati. Chiamarsi fuori dalla discussione, a questo punto, ha un peso etico e anche un peso dialettico. Una guerra di annientamento reciproco non è una discussione. È il suo contrario.
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