L’inutilità della fanfara
DI MICHELE SERRA
Potremmo perdonare a Meloni la sua manovretta economica risicata, faticosa, magra, con quei tre euro di aumento sulle pensioni minime che tintinnano come monetine in fondo a un secchio vuoto?
Certo che potremmo. Lo Stato è da molti anni in tempi di lesina, la ricchezza italiana è dei privati, non di una mano pubblica disprezzata, frodata dall’evasione e spesso ridotta ad assumificio da classi dirigenti poco degne.
Solo uno sciocco potrebbe pretendere che all’improvviso piovessero dal cielo banconote, ospedali nuovi, stipendi degni per gli insegnanti, ponti e strade rifatti, prenotazioni per le visite mediche entro le 24 ore. Se non la perdoniamo non è dunque per la pochezza di quello che è riuscita a combinare insieme ai suoi. Altri, prima di lei, hanno fatto le nozze con i fichi secchi. È per il tono spocchioso, trionfale, infine oltraggioso con il quale Meloni si autocelebra, totalmente dissonante rispetto alla realtà delle cose, alla lesina, all’arrabattarsi, al tirare di qua e di là una coperta così corta che non si capisce come non si sia ancora strappata.
Perché non dire agli italiani, in primo luogo ai suoi, “facciamo quello che possiamo, e sappiamo che quello che possiamo è poco”?
Che cosa ci sarebbe di disonorevole nel parlarci come se fossimo adulti e senzienti, non una claque di ignoranti da gabbare o di bambocci da tenere buoni? La voce della propaganda è odiosa. È la dichiarazione di morte della capacità di parlarsi sul serio.
Dicono che Meloni sia “brava nel comunicare”.
Quando mai? È brava a vantarsi e a organizzare la fanfara. Comunicare vuol dire rivolgersi alle persone senza megafono e farle sentire dentro una storia vera, non le comparse di una frottola.
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