A proposito di un cartellino rosso
DI MICHELE SERRA
Credo sia interessante leggere (la si trova facilmente in rete) la lettera di dimissioni di Simone Lenzi, ex assessore alla Cultura a Livorno. Non conosco la persona, conosco i fatti per quello che se ne sa dai giornali: Lenzi ha espresso su Twitter opinioni poco istituzionali e molto “livornesi” a proposito di quotidiani che non gli piacciono e su alcuni aspetti del dibattito sugli orientamenti sessuali che lui considera moralisti e stucchevoli. Lo ha fatto, direi, con un’irruenza polemica inadatta al suo ruolo pubblico, confermando che i social sono una trappola nella quale cadono in troppi: il contesto conta, ma è un argine ormai travolto dalla tracimazione verbale collettiva.
Non so se Lenzi meritasse il cartellino rosso, o bastasse il giallo, o neppure quello. Non sono il Var. Ma so, con certezza, che quando Lenzi, da uomo di sinistra, scrive ai suoi compagni di Giunta che il problema della sinistra è “il narcisismo etico”, e “per tutti voi l’unica cosa importante sia posizionarsi, quanto più in fretta possibile, dalla parte dei giusti e dei buoni”, dice qualcosa che riguarda tutti. Le parole di tutti e la libertà di tutti.
Non si tratta di difendere la scorrettezza politica, che è puro e greve conformismo travestito da ribellione (vedi Vannacci, comprese le virgole).
Si tratta di capire se l’accusa, politicamente odiosa e umanamente grave, di transfobia (è il caso in questione) possa essere appioppata a prescindere dalla storia personale dell’accusato; valutando le parole con quel piglio censorio, oramai egemone, che è uno dei mali più gravi della comunicazione social; senza più alcuna distinzione tra i diversi registri verbali e le differenti intenzioni (la vis polemica, l’ironia, la volontà effettiva di offendere), come se la nostra lingua fosse oramai una pianola guasta.
Ripeto, non sono il Var. Ma sull’espulsione di Lenzi mi sono fatto qualche domanda.
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