domenica 6 ottobre 2024

Fini e le sensazioni

 


Io mi sento russo, ma non ebreo

VIZI & QUALITÀ - Popolo immenso, sentimentale e crudele, generoso e avido, ospitale e infido, orgoglioso e servile, violento e masochista, scialacquatore, malinconico, fatalista, indolente, sognatore, bugiardo

di Massimo Fini  

Per parte di madre, Zenaide Tobiasz, ebrea, io sono metà russo, e più invecchio più mi sento russo, ma per nulla ebreo, anche se per le loro leggi razziali e razziste che non riconosco sarei tale, perché non ho lo spirito della vendetta che gli israeliani stanno esercitando a piene mani in Palestina per cui, come al tempo della Shoah, basta che un palestinese, uomo, donna, bambino, sia palestinese per essere, di fatto, condannato a morte.

Non disistimo gli italiani (a parte quelli di oggi corrotti fino al midollo), perché ne apprezzo quello che è considerato il loro principale difetto, la faciloneria, cioè il non andare mai fino in fondo alle cose. Ma è proprio questa faciloneria che ha fatto sì che il Fascismo sia stato il meno criminale dei totalitarismi del Novecento, stalinismo e nazismo. Certo, non dimentico i crimini fascisti, dagli omicidi in Francia dei fratelli Rosselli, a Matteotti, alla crudele incarcerazione di Gramsci, che però fu favorita dal bifido Togliatti che si oppose a uno scambio di prigionieri sapendo bene che se Gramsci fosse tornato in pista sarebbe stato il segretario del partito mettendo in seconda linea lo stesso Togliatti.

Fatte queste necessarie premesse, posso ricordare un esempio personale. Mio padre, antifascista, fu manganellato una prima volta dai camerati pisani, ma fu una bastonatura lieve (lui era di Pisa) perché si conoscevano tutti e l’Italia è pur sempre un Paese di campanili. Ma quando arrivarono i fascisti fiorentini la cosa fu seria e mio padre decise quindi di emigrare a Parigi. Era un fuoriuscito e non poteva ovviamente lavorare per i giornali italiani. Anche se in genere (anche se non sempre) il Fascismo preferiva relegare gli antifascisti in qualche esilio piuttosto blando, come fu quello di Curzio Malaparte a Lipari. A Parigi mio padre faceva letteralmente la fame, mia madre lo ricorda mentre rovistava in una pattumiera alla ricerca di qualche arancia marcia.

Allora fu assunto per iniziativa di Paolo Monelli, che era capo della redazione parigina del Corriere. Naturalmente non poteva firmare i suoi articoli e della sua assunzione sapevano solo lo stesso Monelli e l’amministratore.

Gli anni di Parigi furono particolarmente felici per i miei genitori. Allora, in quella Parigi, tutti gli artisti – a parte Picabia e in un secondo tempo Picasso, una vera carogna che in un interrogatorio di polizia fece finta di non riconoscere Guillaume Apollinaire che pur era stato il suo mentore – erano poveri. E anche due intellettuali strapenati com’erano mio padre e la sua futura moglie Zenaide Tobiasz, che fuggiva da un altro totalitarismo, quello stalinista, potevano frequentare quel mondo affascinante dove artisticamente si stava sperimentando di tutto: cubismo, dadaismo, puntinismo. È rimasto famoso il Boulevard des Italiens dove si radunava parecchia di quella gente.

Ma torniamo ai russi: questo popolo immenso, sentimentale e crudele, generoso e avido, ospitale e infido, orgoglioso e servile, violento e masochista, scialacquatore, malinconico, fatalista, indolente, sognatore, bugiardo, supremamente bugiardo, e comunque in ogni cosa eccessivo. Ma che una cosa non ha: il cinismo roman-andreottiano.

Non si possono capire i russi se non si legge, nei Demoni di Dostoevskij, la rabbrividente confessione del principe Stavrogin: “Ogni situazione estremamente vergognosa, oltremodo umiliante, ignobile, e, soprattutto, ridicola, in cui mi è accaduto di trovarmi nella mia vita, ha sempre suscitato in me, insieme a una collera smisurata, una voluttà incredibile”. Ma tutta la vita di Stavrogin dice molto dell’animo russo.

Sfidato a duello, si rifiuta ostentatamente di mirare all’avversario (spara in aria), che diventa pazzo per la rabbia perché ritiene l’umiliazione insopportabile. Passando su un ponte, viene avvicinato da un poveraccio che gli chiede pochi copechi, lui lo ignora e prosegue oltre, ma ripassando su quel ponte e ritrovando il clochard gli lascia alcune migliaia di rubli.

Naturalmente la narrazione è di Fëdor Dostoevskij, che incarna perfettamente l’animo russo. Scrittore d’appendice, quasi senza un soldo, sperpera i suoi quattrini in tutti i casinò d’Europa.

I russi sono sinceri anche quando sono insinceri. C’è un episodio emblematico. Trockij ha avuto una lieve indisposizione, Bucharin si precipita al suo capezzale e chiamandolo babushka, mio adorato babushka – i diminutivi e i vezzeggiativi fanno parte del linguaggio russo – gli dice: “Sono solo due le persone a cui io tengo, Lenin e te”. Uscendo di casa, Bucharin tradisce subito il babushka, il suo adorato babushka, per andare a denunciarlo da Stalin. Ma Trockij sottolinea in Ma Vie che Bucharin era assolutamente sincero nel momento in cui lo vezzeggiava.

Il russo è uno scialacquatore e un dilapidatore. Innanzitutto di se stesso. Non ha, non aveva, nessun concetto dell’investimento. Ogni occasione è migliore del denaro da spenderci. Questo lo ritrovo anche in me. Mentre la mia ex moglie ha tre case, io una sola e piuttosto sgangherata. Son russo.

Il periodo migliore, storicamente, è stato quello della Russia zarista. Per cui quando si dà a Putin dello Zar gli si fa solo un favore. L’oppressione era minima. In tanti anni di insurrezione furono fucilate solo dieci persone, purtroppo tra queste c’era anche il fratello di Lenin. Ma anche chi si opponeva era fatto di pasta diversa. Camus li chiama “i terroristi gentili”. Un pomeriggio uno di questi “terroristi” doveva gettarsi fra gli zoccoli di una carrozza degli Zar. Ma vi rinunciò perché vide che sulla carrozza c’erano anche i figli.

I russi sono indolenti, indolentissimi, figuriamoci la loro servitù di una volta. Ma i rapporti fra i padroni e i servi, all’epoca dell’aneddoto che sto per raccontare non più “servi della gleba”, erano strettissimi. Una sera d’un inverno molto freddo, quando i lupi scendono verso le città per trovare qualcosa da mangiare, la carrozza in cui c’era il fratellino di mia madre, di otto anni, guidata da un servo, fu assalita dal branco. Lui tagliò le redini di un cavallo e lo diede in pasto ai lupi. Ma la carrozza, ovviamente, in questo modo andava più piano. Allora tagliò le redini anche del secondo cavallo della troika, ma la carrozza andava ancora più piano. Erano già in vista le torri antincendio di Saratov – non esisteva ancora un servizio antincendio –, città sul Volga a qualche migliaio di chilometri da Irkutsk dove era nato Nureev (se avessi potuto fare un film, il personaggio di Stavrogin l’avrei fatto fare a Nureev, il grande ballerino e coreografo che era russissimo, anche se ci teneva a sostenere di essere tataro, perché poi è quasi la stessa cosa: i tatari fanno parte della storia russa), allora il servo si gettò in pasto ai lupi.

All’indolenza dei servi, quando andava oltremisura, i padroni reagivano a colpi di knut. È ciò che faccio anch’io, sia pur con mezzi diversi, con la mia domestica. Son russo.

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