Elezioni Usa. Si vota in America, baby, ma tu non puoi farci niente
di Alessandro Robecchi
Tra una manciata di settimane, né ridendo, né scherzando, sapremo chi è il nuovo padrone del mondo, o almeno di una parte considerevole del mondo, cioè il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America. Come avviene ogni quattro anni, assistiamo un po’ stupiti e un po’ atterriti allo spettacolo d’arte varia delle elezioni americane, il che è bello è istruttivo, perché non c’è italiano – dai banchi del mercato ai commentatori più accreditati – che non diventi per qualche giorno esperto di Ohio, occhiuto osservatore delle dinamiche sociali del Michigan, esegeta della Florida. Una specie di “Presidenziali for dummies”, insomma, che è un po’ quel che accade nelle grandi aziende, quando il magazziniere, l’autista o l’uomo delle pulizie assistono alla nomina del nuovo amministratore delegato, che guadagna quarantamila volte di più. Le loro vite dipenderanno da lui, ma il loro potere sulla scelta di chi comanderà è meno di zero.
Ad attrarre l’attenzione verso questa grande festa della presa del potere nello Stato più potente del mondo contribuiscono certo anche elementi prepolitici – o post-politici, se preferite. E cioè la trasformazione delle elezioni americane in un baccanale pop in cui la democrazia si misura su questo o quel vip che si schiera, sull’entità delle donazioni di centinaia di milionari che puntano sul loro cavallo, su cosa dirà Taylor Swift, sulle geometrie variabili degli oligarchi e delle mega aziende, su promesse bislacchissime. Insomma, un miscuglio fascinoso e inestricabile tra l’Isola dei famosi, la notte degli Oscar e lo scenario geopolitico mondiale, aggravato dal fatto che uno dei concorrenti, mister Trump, ha già fatto il diavolo a quattro l’ultima volta, con tanto di assalto al Congresso e tifosi con l’elmetto di corna armati fino ai denti.
Viste da qui, poi, dalla periferia dell’Impero, dalla colonia pittoresca ma fedelissima, le elezioni americane consentono un simpatico tifo da stadio. Pare ovvio essere contro Trump, sostenuto apertamente quasi solo dall’estremismo salviniano, e sottotraccia da gran parte della destra, mentre per Kamala si spellano le mani gli onesti democratici del Paese, tra parentesi gli stessi che fino a un paio di mesi fa dicevano che Biden era in forma smagliante, praticamente un giovanotto. Bello, edificante, ma tutto teorico, perché alla fine, chiunque vincerà, chiunque entrerà alla Casa Bianca, noi andremo a baciare la pantofola al nuovo imperatore, lo faranno i patrioti post(?)fascisti oggi al governo, e lo faranno i democratici oggi all’opposizione se dovessero un giorno andare al governo, proprio come le tribù mesoamericane portavano doni e sacrifici umani a Montezuma. Del resto, l’Impero ha qui le sue basi e le sue bombe, e soltanto tre dei suoi fondi d’investimento gestiscono un quinto di tutti gli investimenti del mondo. Vengono qui a far la spesa quando vogliono (è notizia di ieri che Blackrock si è comprata il 3 per cento di Leonardo, e già possiede pezzettini non piccoli del sistema bancario italiano), e la “patriota” Meloni ha venduto a un’azienda Usa la rete Tim, che sarebbe un’infrastruttura strategica. Assisteremo dunque a una partita il cui risultato è rilevantissimo eppure irrilevante, perché la nostra fedeltà all’Impero non è in discussione, cosa che ci viene ripetuta ogni giorno, incessantemente, a volte come monito, a volte come lusinga e a volte come minaccia. In definitiva, si elegge il nostro capo, noi non votiamo, possiamo fare il tifo, ma chiunque sarà gli obbediremo.
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