Ultima deriva Pd: votare Fitto “perché è italiano”
di Tomaso Montanari
Errare humanum est, perseverare diabolicum. Se il sì del Partito democratico (e dei Socialisti europei) al secondo mandato di Ursula von der Leyen è stato, a luglio, un gravissimo errore, un nuovo sì alla vicepresidenza di Raffaele Fitto rappresenterebbe ora un diabolico accanimento, e soprattutto certificherebbe l’incapacità del Pd di elaborare una prospettiva politica – e, prima, culturale – alternativa a quella che ha condotto l’Europa alla negazione stessa della sua ragione di esistere.
L’Europa nacque con una missione su tutte: sradicare la guerra dal continente, spegnendo per sempre il fuoco dei nazionalismi europei. Rinnegando tutto questo di fronte all’invasione russa dell’Ucraina, invece di imporre subito le inevitabili trattative di pace (e di farsene sede e promotrice) l’Unione si è trasformata in una succursale della Nato, ha messo la guerra e le armi in cima alle sue ragioni sociali, e la sua presidente tedesca ha rispolverato una atroce retorica della vittoria che ha ridato diritto di cittadinanza a fantasmi osceni, che credevamo esorcizzati per sempre, almeno in Europa. Confermando Von der Leyen, i socialisti, e con loro il Pd, si sono schierati dalla parte della guerra, del tradimento dell’idea stessa di Europa: nel migliore dei casi, un chiaro segnale di impotenza politica.
Se ora il Pd decidesse di votare anche per il commissario Fitto “perché è italiano”, l’intera operazione assumerebbe un colore anche più nero, perché significherebbe soddisfare “lo stupido sentimento patriottico che guarda ai colori dei pali di confine ed alla nazionalità degli uomini politici che si presentano alla ribalta, invece che al rapporto delle forze ed al contenuto effettivo”. Sono, queste, parole del Manifesto di Ventotene (1941), altissimo programma morale per l’Europa che sarebbe nata dopo la guerra. Un suo passaggio centrale prendeva atto che “la linea di divisione fra i partiti progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai, non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa coloro che concepiscono come campo centrale della lotta quello antico, cioè la conquista e le forme del potere politico nazionale, e che faranno, sia pure involontariamente, il gioco delle forze reazionarie, lasciando che la lava incandescente delle passioni popolari torni a solidificarsi nel vecchio stampo e che risorgano le vecchie assurdità, e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopereranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale”. Sembravano parole antiche: oggi tornano attualissime. A proposito del risorgere di “vecchie assurdità” abbiamo una presidente del Consiglio che parla solo di nazione (non di Repubblica e, con buona pace dell’amato Giovanni Gentile, nemmeno di Stato). È una nazione barbarica, genetica, brutale: per via di sangue, come ha ben chiarito lungo tutta l’estate la violenta chiusura alle (certo strumentali) proposte di Antonio Tajani sullo ius scholae. Ed è il centro di una retorica identitaria e nostalgica che serve insieme a deportare o ad affondare i migranti, e a reprimere violentemente il dissenso di chi intralci grandi opere di interesse ‘nazionale’. In un mondo in cui i nazionalismi (si pensi a quello israeliano) tornano a essere il primo pericolo, che futuro potrebbe avere una sinistra impantanata nella retorica nazionale e nazionalista del commissario da votare “perché è italiano”? Qual è il vero interesse dell’Italia: avere un commissario italiano (peraltro dalle deleghe pressoché irrilevanti, con le quali Von der Leyen punisce Meloni per il mancato voto di luglio), o avere una opposizione capace di costruire un’alternativa europea e internazionale al ritorno della guerra come unica forza ordinatrice dei rapporti tra nazioni?
A ogni tornata elettorale ci si duole dell’astensione crescente, che consente la vittoria di una destra minoritaria nel Paese. Ma questo sempre più diffuso disincanto non è forse il frutto del tradimento sistematico di ogni decenza da parte della ‘sinistra’? Se i democratici votassero tranquillamente un uomo che è slittato attraverso tutte le sfumature di destra – da un’estrazione democristiana a una ortodossia berlusconiana fino ad arrivare a Fratelli d’Italia –, uno che nel 2008 acconsentiva entusiasta alle affermazioni di Berlusconi e Dell’Utri sul fatto che lo stalliere Mangano fosse un “eroe”, dicendo ai giornalisti che gliene chiedevano conto, di “farsene una ragione”; ebbene se oggi il Pd si dicesse rappresentato da tutto questo in nome dell’interesse nazionale, non sarebbe il segno dell’ennesima bancarotta morale, culturale, politica?
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