I 5S delle “origini” e il re-Dio Grillo
Il fondatore si comporta come i sovrani assoluti: richiama Conte a fare l’“alternativa ai partiti tradizionali”, ma è lui ad avere commesso l’errore di conficcare i Cinque Stelle dentro il governo Draghi
di Daniela Ranieri
“Un partito rivoluzionario, nel momento in cui smette di essere rivoluzionario, è niente”, disse in merito al Pci Concetto Marchesi, deputato dell’Assemblea costituente.
Per il M5S, che di certo nella società italiana rivoluzionario lo è stato (vedi Reddito di cittadinanza, decreto Dignità contro il lavoro precario, legge Spazza-corrotti, etc.) mai come adesso, dopo essere andato sotto al 10% alle Europee, si configura la scelta tra tornare rivoluzionario o diventare niente.
Il fondatore Beppe Grillo, che quella spinta dal basso contestataria e clamorosa ha convogliato e guidato, sente la sua creatura snaturata dalla volontà di Conte di rivedere lo Statuto e la Carta dei Valori, e reagisce come ha sempre fatto in questi anni, cioè da suo proprietario e demiurgo (il titolo di Garante – a vita!, altro che due mandati – è infatti un’autoinvestitura: uno messo da sé a garanzia di ciò che professa).
Restando alla superficie, alla scocca della contesa: Giuseppe Conte, capo politico e presidente del movimento, pensa che il M5S resti rivoluzionario cambiando, e perciò ha annunciato per fine ottobre un’assemblea costituente per “dare la parola a tutti gli iscritti e ai simpatizzanti per elaborare nuove soluzioni e nuovi obiettivi strategici ai quali il Movimento si dedicherà negli anni a venire”; Grillo (con Raggi), pensa che essere rivoluzionario voglia dire restare, anzi tornare, il movimento delle origini. Quindi: rifiutarsi di dirsi partito, rifiutare l’alleanza col Pd, tutelare il sacro nome e il santo simbolo (peraltro già cambiati nel tempo, vabbè), venerare il feticcio dei due mandati (che però, quando gli fece comodo, reggenza Di Maio, diventarono tre con l’espediente vagamente perculatorio del “mandato zero”), in definitiva cristallizzarsi nel proprio mito. Grillo contesta finanche la genuinità del processo evolutivo, da cui Conte trarrebbe vantaggio: l’assemblea costituente non sarebbe che “una farsa per farmi fuori”.
Grillo si comporta come i sovrani assoluti, esenti da responsabilità. Con quale credibilità oggi può richiamare Conte alla fondativa essenza del movimento quale “unica alternativa ai partiti tradizionali” quando lui ha commesso l’errore che fu la bizzarra posticipazione di un peccato originale (infatti per tutti i media padronali è stata l’unica cosa buona fatta da Grillo)? Assecondando tutto l’establishment che tifava per la destituzione di Conte, sotto pandemia, per mano di un politico dedito alla pirateria parlamentare come Renzi, ha appoggiato il governo Draghi, credendo (davvero) alla panzana del “governo dei migliori” e della “transizione ecologica” e arrivando a chiamare uno come Cingolani (un nuclearista, quando l’ambiente era una delle 5 stelle del movimento) un “grillino della prima ora”. Non avendogli ciò provocato alcuna dissonanza cognitiva, si è dunque calato nelle vesti del creatore il cui verbo è spesso oscuro, contraddittorio e tuttavia incontestabile: quando le cose per lui, sul piano semantico o politico, si mettono male, infatti, solleva una specie di Mose ontologico: ma io sono un comico! Strategia un po’ comoda e paracula per non assumersi mai nessuna responsabilità politica, stando a capo di un partito politico. Una visione teologica della politica che Grillo non ammetterebbe mai se non in chiave ironica (si definisce “l’Elevato”), ma che pure è evidente: il carisma delle origini deve colare su ogni decisione futura; lo spettro di Casaleggio, che quella visione originaria fatta di contestazione, insofferenza popolare e desiderio di pulizia trasformò in software politico, deve guidare dall’aldilà ogni mossa di Conte, mero sacerdote del sacro fuoco primevo. Del resto nel 2021 Grillo disse apertamente cosa pensava di Conte: “Un incapace”, uno che “non ha visione politica né capacità manageriali”; e però è il terzo leader più popolare dopo Meloni e Tajani e prima di Schlein.
Adesso, geloso come il Dio della Bibbia, Grillo fa rivoluzioni di retroguardia e puramente autoreferenziali: alla gente non frega niente se Conte è andato alla “birrata” di Avs con la Schlein e nemmeno se vuole cambiare le regole interne al movimento, se non nei termini di ciò che gli consentono di fare in Parlamento. Oggi gli ambiti su cui fare la rivoluzione sono la Sanità pubblica, il lavoro dignitoso, il salario minimo, il diniego a ogni bavaglio all’informazione, il rispetto e l’applicazione della Costituzione in ogni ambito della vita collettiva, primo fra tutti il principio per cui l’Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e in base al quale si dovrebbe smettere di inviare armi all’Ucraina, declinare il diktat Nato per l’aumento delle spese militari, rifiutare il destino di essere una colonia americana e di fare la guerra alla Russia, ciò che è autolesionista e rovinoso oltre che appunto incostituzionale. O Grillo pensa davvero che i “principi non negoziabili” siano il simbolo, i due mandati (“la politica come servizio e non professione”, alla faccia di Max Weber) e altra chincaglieria vintage alla stregua dei meet-up e della sacralità della Rete? (Invero, propone altre cose, ma non sembrano grandi battaglie per l’umanità). Se Grillo garantisce l’aderenza allo spirito originario, non dovrebbe assecondare l’innovazione, che del M5S è stata il motore?
La soluzione parrebbe facile: intanto togliere a Grillo il contratto di consulenza per 300 mila euro per curare la “comunicazione” del M5S, anche alla luce del fatto che la lotta antropologica che ha intrapreso con Conte (e che ricalca il mito dell’uccisione dei “re sacri” e della successione al potere raccontata ne Il ramo d’oro da Frazer) è disastrosa sul piano della comunicazione. Ma chi decide: Grillo o il partito, nella persona di Conte? Se Conte non ne ha diritto in quanto presidente e non proprietario, allora si chieda agli iscritti, in base al principio primigenio della democrazia diretta. Oppure decide Grillo? È una disputa teologica: chi c’è sopra il Garante? Se non c’è nessuno, e se quindi lui è Dio, perché ne è anche un consulente? Di chi? Si consulta da sé, al costo di 300 mila euro? Grillo è uno e bino?
Ora si affida alle Pec, ai cavilli, minaccia di mettere in mezzo gli avvocati (per dirimere la contesa con un avvocato), senza accorgersi di contraddire palesemente la natura spontanea e corsara delle origini che professa di incarnare come vertice platonico del movimento. Non sarebbe più nobile limitarsi a esserne amorevole padre, magari gratis?
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