La parabola del mare nostro, i migranti ignoti e il “Bayesan”
DI RANIERO DELLA VALLE
Il naufragio del Bayesian di Londra al largo di Palermo ci racconta una parabola di cui faremmo male a non tenere conto.
Un anno fa leggemmo a un’assemblea romana da cui prese il via l’esperienza di “Pace Terra Dignità” una poesia di Erri De Luca i cui protagonisti erano i pesci del Mediterraneo. Diceva: “Prendete e mangiate”. E rievocando il sacrificio dell’Ultima Cena, diceva ai pesci accorsi attorno al relitto dei migranti: “Questi sono i corpi planati a braccia aperte sul fondale. In terra sono stati crocefissi, ora sono del mare e di voi pesci. Prendete e mangiatene tutti, che non avanzi niente…”.
Ora è il mare stesso il protagonista della tragedia che ha travolto lo yacht inglese e ne ha sepolto le vittime. Il mare si è ribellato al ruolo che ormai da anni gli è stato dato di mostro marino che ingoia i migranti, toglie loro anche il nome e ne diventa il cimitero a cielo aperto.
Il mare che oggi intercetta le brevi rotte, è il grande mezzo che ha messo in relazione gli uomini sulla terra, ben prima della comunicazione per via elettronica e dei social. Popoli interi si sono mossi sul mare, hanno raggiunto nuove terre e scoperto l’ignoto, e il mare ha conservato e restituito la memoria del passato che si trasmette da una generazione all’altra, come mostrano i bronzi di Riace, il satiro di Mazara del Valle, le anfore disseminate nei musei, il relitto dell’aereo di Ustica.
Ma i cadaveri dei migranti che ha inghiottito non li restituisce, li lascia ignoti e senza nome. Il “nostro” mare, suo malgrado, è diventato complice di una inaudita violenza, A chi, al vederla, gridava “Terra, terra!”, ha chiuso i porti, il salvataggio dei naufraghi in mare da obbligo l’ha visto diventare un reato, le navi di soccorso sono state impedite di salpare, le motovedette della caccia ai clandestini sono state finanziate, ai “carichi residui” dei salvati è stato imposto di navigare ancora verso porti lontani, gli sbarcati sono stati chiusi nei lager, deportati o scambiati per denaro e rimandati nelle terre di origine, e i poveri, i fuggiaschi, i perseguitati cancellati dall’informazione.
E a un certo punto il mare si vendica, e si rivolta contro il veliero dei ricchi. Ed ecco che si scatena la gara dei soccorsi, e le motovedette perlustrano il mare, e i sommozzatori rischiano per andare a trovare e riportare a galla i morti, e anche gli ambasciatori si muovono, vengono da lontano per vigilare sul recupero dei connazionali, e ogni cadavere ha indietro il suo nome, e non si lascia che i pesci li prendano e li mangino così che non avanzi niente, “nessuna delle corde vocali che hanno gridato al vento”.
La parabola del mare ci ammonisce a non fare così. E il mare, col suo vento, con le sue tempeste d’estate, surriscaldato e trasformato in turbine d’acqua e di nebbie, si fa parte per il tutto, prende la parola e ci parla a nome di tutta la natura, ammonisce i ricchi a non disperdere i loro soldi in armi, speculazioni e corruzioni, ma di impiegare tutte le risorse per salvare la terra, per mitigare il clima, per rimettere “il chiavistello alle acque”, per indennizzare i depredati, per liberare i sommersi e gli sfruttati, per trasformare i migranti clandestini in passeggeri, i richiedenti asilo in cittadini.
E chiede che a quelli che non sono nati qui, ma qui spinti dal dolore e dai genocidi, non si aspetti a dare lo ius soli ai loro figli, ma si riconosca lo ius maris ai padri, alle madri e alle partorienti sui relitti.
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