lunedì 19 agosto 2024

Argentario

 

Argentario, un’apocalisse tra Orbetello e il black out
IL PARADISO OFFESO E PERDUTO - La dimenticanza delle regole della manutenzione, la perdita di comunione con l’ambiente, un orizzonte politico giocato soltanto sui cinque minuti
DI TOMASO MONTANARI
Prove tecniche di apocalisse in paradiso. Questa estate 2024 a Monte Argentario apre una finestra – indesiderata, ma decisamente istruttiva – sulla fase che stiamo attraversando. Grazie alla famiglia di mia moglie, di Porto Ercole, negli ultimi venticinque anni ho imparato ad amare profondamente questa strana isola cui si arriva in macchina: ad amare la strepitosa bellezza della sua costa verdissima a strapiombo su un mare con pochi eguali, la luce della Laguna che la lambisce, la sua lingua e la sua cucina impastate di Spagna e di Napoli, il suo rapporto di comunione e insieme di alterità rispetto alla Maremma profonda che la circonda, tra Toscana e Lazio. Tutto questo ben di Dio ha richiamato grandi speculazioni, e l’urto estremo del turismo di massa. Come in tutta l’Italia del dopoguerra, le classi dirigenti locali non sono state all’altezza né del patrimonio avuto in sorte né delle responsabilità che comportava: e oggi si raccolgono i frutti di decenni di incapacità, mancanza di visione, rapacità spicciola.
Dopo la privatizzazione dei forti spagnoli, il sacco delle ville abusive ovunque (nel 1984 Antonio Cederna notava che, in un quadro nazionale di abusivismo selvaggio, «il caso che più ha fatto rumore sono i cento edifici dell’Argentario»), l’accesso al mare proibito (celeberrima la battaglia, vittoriosa, dell’Associazione donne Argentario, Ada, contro il condominio vip dello Sbarcatello), lo scandalo di una strada pubblica (la panoramica che collegherebbe Porto Ercole e Porto Santa Stefano dal lato del mare) chiusa da anni per non disturbare i facoltosi residenti estivi, arriviamo ai nostri giorni. Sono ancora fresche le grottesche manovre per accreditare la farsesca ‘scoperta’ delle ossa di Caravaggio, quando Cesare Previti portò in trionfo sul suo veliero una teca di plexiglas con ossi presi a casaccio e trasformati in sante reliquie storiche, omaggiate da un codazzo di autorità in fascia tricolore. Abbandonati i miraggi, è arrivato l’aggressivo colonialismo di un ricchissimo imprenditore svedese, che sta comprando a pezzi mezzo Argentario, complice anche la sopravvivenza di una proprietà fondiaria aristocratica priva di idee e cultura, e a corto di contanti. Il risultato è che tutto si trasforma in club per ricchi: belli, per carità, ma privi di ogni identità, e di ogni contatto con il tessuto sociale locale, ridotto a fornitore di mano d’opera. In tutto questo marketing territoriale, in questa bulimia di investimenti e presenze, a sparire è un governo del territorio consapevole e lungimirante: e in questo agosto è arrivato il conto. Prima l’atroce agonia della Laguna di Orbetello, trasformata in un immobile manto violaceo punteggiato dalle carcasse di decine di migliaia di pesci morti per asfissia: uno scenario da piaghe d’Egitto.
Un danno economico, certo, ma soprattutto una grande catastrofe ambientale, che rilancia la lezione che la Laguna di Venezia dovrebbe avere insegnato una volta per tutte. E cioè che in natura una laguna non esiste per sempre: o diventa mare, o si interra, ed è solo il lavoro (e prima la cultura, e l’amore) dell’uomo che può farla vivere, sospesa tra natura e artificio. Invece, da troppi decenni si è lasciato che perisse il sistema di canali che collega la Laguna al mare, bloccando il ricambio di acqua e ossigeno, e lasciando che progressivamente il livello dell’acqua si abbassasse: la quantità di fertilizzanti scaricati dai corsi d’acqua dolce (e dunque il proliferare di alghe) e un allevamento ittico intensivo hanno costruito una bomba biologica trascurata troppo a lungo.
la dimenticanza delle regole della manutenzione, la perdita di comunione con l’ambiente, un orizzonte politico giocato sui cinque minuti; e soprattutto un senso di onnipotenza e l’illusione di uno sfruttamento infinito di un ambiente finito: non è forse, in piccolo, lo stesso cocktail che porta il pianeta al collasso? E ora un blackout di 48 ore, con poche illusorie pause, ha devastato il ponte di Ferragosto all’Argentario, facendo prigioniere migliaia di persone, e dando una mazzata epocale alle attività economiche (ristoranti e alberghi chiusi, intere celle frigo da gettare…) e all’immagine del Monte. Lo scaricabarile tra Enel e Comune (la cui incapacità di comunicare con cittadini e turisti è stata davvero imperdonabile) nasconde l’ovvio: troppa gente, troppe attività, troppi condizionatori e nessun serio investimento pubblico su infrastrutture efficaci e sostenibili. Ancora una volta: consumo e utile a breve tempo, nessuna lungimiranza e capacità di governo dell’ambiente. Un giorno tutto si blocca all’improvviso, nell’impotenza generale. E mentre tutto è al buio, mentre corrono le ambulanze a soccorrere gli anziani e malati rimasti senza aria condizionata, e gli esercenti si disperano, proprio sul lembo di Argentario più vicino alla diga che va a Orbetello, ecco il Luna Park: acceso come una luminaria da festa patronale, e tutto in movimento. Ce la meritiamo, l’apocalisse prossima ventura.

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