THE SHOW MUST GO ON - I rivoli sulla guancia come un capo Apache, una demo del sacrificio: l’attentatore gli ha offerto una pira per bruciare il passato
di Daniela Ranieri
Sarà che quel che riguarda Donald Trump ha sempre un sentore farsesco oltre che canagliesco e delinquenziale, come se la sua figura, capace di muovere la plebe alla sedizione satolla di Capitol Hill, sfarfallasse continuamente tra il raccapriccio e lo scherzo carnevalesco di cattivo gusto, ma le immagini che lo ritraggono mentre si issa dopo essere stato colpito a un orecchio da un proiettile sono di ipnotizzante bellezza artistica. Se l’evento politico ha in sé, com’è scontato che sia, una potenza enorme, la stessa dei riti di passaggio e delle feste collettive (il candidato repubblicano che vincerà le elezioni è battuto da un cecchino ventenne che buca la sua sicurezza ridicolmente palestrata, addestrata, contundente), l’evento mediatico, con tutta la sua esorbitante semiologia, è spettacolare. La foto scattata subito dopo lo sparo dal fotografo Evan Vucci dell’Associated Press, premio Pulitzer 2021, non a caso immediatamente postata su X dal figlio Donald Trump jr., è una stupefacente esplosione di segni: Trump, forzato a muoversi dagli agenti del Servizio segreto che a stento lo spostano, si libera, si trattiene, si immortala, si tramanda; simile a uno dei Prigioni di Michelangelo, si fa simbolo congelato, icona, fermo immagine. Trump conosce la potenza delle immagini e sa che deve cogliere il kairos, il momento supremo e casualmente perfetto: ha tre rivoli di sangue sulla guancia destra, come un capo Apache, il cui rosso rimbalza sulle strisce della bandiera americana che sventola alle sue spalle, sulla sinistra; il pugno destro chiuso e alzato al cielo, come ha scritto il New York Times, suggella l’apice del “legame viscerale” coi suoi sostenitori.
La sua quasi morte buffonesca è la ratifica di un contratto: colui che aveva promesso di rifare grande l’America (un motto rubato a Mussolini, che lo usava nei suoi illusionismi priapieschi per illudere il popolo che avrebbe rifatto grande Roma) mostra al suo pubblico affamato di rivalsa una demo del sacrificio che è pronto a compiere (e infatti il figlio scrive: “Non smetterà mai di combattere per Salvare l’America”). Biden ne sarebbe morto, caduto a terra crivellato. Trump rimbalza dal suolo, si sottrae alla forza di gravità, risorge gridando, stagliandosi contro il cielo blu della Pennsylvania, e con l’orecchio ferito, la carnagione mandarinata e caramellata come quella dell’anatra all’arancia, è insieme ridicolo e fiero: l’attentatore gli ha allestito un altare su cui issarsi, una pira per bruciare il passato (di fatto è un perdente, l’unica cosa che non ammette di essere) in un rito liminale in cui lui, da vittima, diventa sacerdote dell’unica cosa che quelli della sua risma rispettano come sacra: l’apoteosi orgiastica della pura superficie, il dominio dell’immagine sulla sostanza, la santità della vernice sopra l’essenza. Come già Berlusconi colpito dalla statuina del Duomo dall’inconsapevole Tartaglia, Trump sa che lui è il suo volto: privo della drammaticità paesaggistica dei grandi leader colpiti da attentatori (Lincoln, Kennedy, Reagan, persino il mentitore Nixon), e tanto più della ieraticità funebre dei dittatori (Pinochet, i Re sforacchiati dai gloriosi anarchici) e incinesito da anni di lifting estremo, il volto di Trump non sarebbe stato così perfetto, maschera aderente allo Zeitgeist, neanche a photoshopparlo. Lui è banalmente sé stesso proprio perché è tutto falso, come il suo seguace vestito da sciamano nell’assalto al Campidoglio. Il sangue gli conferisce quel che gli manca da sempre: la serietà, anche se si tratta di una serietà posticcia, da lunapark, e il sangue sembra quello dei film horror. Come Berlusconi, è tanto privo di gravità quanto di ironia: è piallato su una semiotica semplicissima e violenta, il broncio è lo stesso di quando dibatte in Tv (i proiettili gli rimbalzano addosso come le obiezioni, le critiche, gli anatemi). Il suo corpo, cromato e incredibile come quello dei villain dei fumetti, è un corpo di pixel, niente è vero in lui, nemmeno mentre potrebbe stare per crepare. Mente pure quando gli sparano, costruitosi attorno come un fantoccio di carne tra Tv spazzatura e psichiatria, spettacolo e clinica.
Il silenzio che circonda l’attimo immortalato dalla foto è in realtà un applauso, quello che scoppiava nel talent show in cui si divertiva sadicamente a licenziare gli apprendisti. Vittima sacrificale ed eversore, la sua morte da burletta lo incoronerà re.
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