DI MICHELE SERRA
Un Parlamento che vota a favore del premierato vota per ridimensionare se stesso e il proprio ruolo (assieme a quello del Quirinale). Si auto-declassa e perde una ulteriore fetta del suo prestigio, già calante. Concede al premier o alla premier un potere molto maggiore di quello fin qui attribuito, secondo le regole costituzionali e le consuetudini politiche, a Palazzo Chigi.
Chi già dubitava della rappresentatività degli eletti trova una decisa conferma nel voto di queste ore: non sono in quell’aula per portare la voce dei loro elettori e dei collegi dai quali provengono. Sono, più banalmente, truppe di partito, claque di un leader o una leader, e il loro voto è spiegabile solo in quella chiave. Meloni ha detto “premierato”, dunque noi votiamo premierato, compatti ed entusiasti.
Si dice tanto, e giustamente, dei guasti della semplificazione, del rifiuto sempre più diffuso dei ragionamenti complicati in favore di formulette veloci. Con tutto quello che abbiamo da fare, mica possiamo sprecare tempo e fiato per la politica, tutte quelle chiacchiere, quelle lungaggini, quelle decisioni sempre rimandate. Mettiamo a Palazzo una o uno che decide per tutti, e finalmente si volta pagina. Non sorprende che questa ideuzza, metà illusoria metà dispotica, possa piacere a molti italiani, anche se è difficile sapere quanti. Ma che trovi proprio nel Parlamento il suo trampolino di lancio è particolarmente penoso. Assomiglia al nobile caduto in disgrazia che mette volontariamente la testa nella ghigliottina, e saluta cordialmente il suo boia. E assomiglia, nonostante le manate e le urla, alla famosa aula sorda e grigia della quale il Capo decide di fare a meno.
Un Parlamento che vota a favore del premierato vota per ridimensionare se stesso e il proprio ruolo (assieme a quello del Quirinale). Si auto-declassa e perde una ulteriore fetta del suo prestigio, già calante. Concede al premier o alla premier un potere molto maggiore di quello fin qui attribuito, secondo le regole costituzionali e le consuetudini politiche, a Palazzo Chigi.
Chi già dubitava della rappresentatività degli eletti trova una decisa conferma nel voto di queste ore: non sono in quell’aula per portare la voce dei loro elettori e dei collegi dai quali provengono. Sono, più banalmente, truppe di partito, claque di un leader o una leader, e il loro voto è spiegabile solo in quella chiave. Meloni ha detto “premierato”, dunque noi votiamo premierato, compatti ed entusiasti.
Si dice tanto, e giustamente, dei guasti della semplificazione, del rifiuto sempre più diffuso dei ragionamenti complicati in favore di formulette veloci. Con tutto quello che abbiamo da fare, mica possiamo sprecare tempo e fiato per la politica, tutte quelle chiacchiere, quelle lungaggini, quelle decisioni sempre rimandate. Mettiamo a Palazzo una o uno che decide per tutti, e finalmente si volta pagina. Non sorprende che questa ideuzza, metà illusoria metà dispotica, possa piacere a molti italiani, anche se è difficile sapere quanti. Ma che trovi proprio nel Parlamento il suo trampolino di lancio è particolarmente penoso. Assomiglia al nobile caduto in disgrazia che mette volontariamente la testa nella ghigliottina, e saluta cordialmente il suo boia. E assomiglia, nonostante le manate e le urla, alla famosa aula sorda e grigia della quale il Capo decide di fare a meno.
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