mercoledì 1 maggio 2024

In ricordo

 

L’ANNIVERSARIO
Trent’anni senza Ayrton l’eroe perduto e il più amato
DI MAURIZIO CROSETTI
Quanto corrono veloci trent’anni nella curva del tempo, quanto sono insopportabilmente lenti. Come se quello schianto durasse ancora, e ripetesse sé stesso all’infinito. Lo estrassero dall’abitacolo, ed era già una deposizione: un compianto per il figlio morto. Perché di Ayrton Senna eravamo tutti padri e fratelli. Il casco giallo ebbe come un fremito, una leggera ondulazione. Un battito d’ali, la vita che svanisce.
Era il pilota più veloce, più emotivo, più rabbioso, più malinconico, più amato. Aveva negli occhi il lampo triste della premonizione, come Coppi, come Pantani. E non solo quel giorno, il primo maggio 1994. Sempre, l’aveva. Ma quel giorno Senna non voleva correre,forse sentiva il vento della morte che a volte romba ma più spesso sussurra. Quel vento, poche ore prima, si era portato via l’austriaco Roland Ratzenberger che aveva 34 anni come Ayrton ma non era un dio della velocità, in vita sua aveva corso veramente un solo Gran Premio, era una comparsa, un’apparizione del destino. Gli altri lo videro morire. Per Senna fu come passare accanto a uno specchio senza poter abbassare lo sguardo.
Trent’anni sono niente e sono tanto, sono il ciuffo di capelli che sfugge alla cuffia mentre Ayrton infila l’elmo oppure se lo leva, a battaglia finita. Quel casco che un pezzo dell’auto, il puntone della sospensione anteriore, un giorno trafiggerà come una spada medievale. Così può morire il cavaliere, più è circondato d’amore e più la morte lo invidia e lo pretende.
La morte adesso è un’asta di ferro, un bastoncino da nulla. C’è un cartellino, attaccato alla morte, e sopra sta scritto “1994 PIANTONE FW16”. Lo hanno esposto al Museodell’Automobile di Torino, nella mostra che racconta un uomo attraverso le cose, gli oggetti, le autovetture, le tute, gli orologi, i guanti, i caschi, le fotografie affogate d’ombra. Dunque, hanno portato lì anche il piantone dello sterzo che era stato saldato la notte precedente il Gran Premio di Imola, perché le nocche di Ayrton andavano a sbattere contro l’abitacolo della sua Williams («È talmente stretto che se mangio un panino non entro»), e perché il volante troppo vicino al cruscotto ne complicava la lettura. Venne dunque aggiunto un pezzo, una specie di prolunga. Avrebbe però ceduto, perché la sorte ha molti corpi e forme da assumere, quella di Senna si incarnò in due parti della vettura che hanno pure un nome simile, il puntone, il piantone. La morte abita dappertutto, anche nel vocabolario. Trent’anni sono il dolore per l’eroe perduto, per quel paio d’occhi romantici e scuri come l’orizzonte che d’improvviso si gonfia di nuvole e poi diluvia: Ayrton adorava momenti così, perché nessuno al mondo sapeva guidare come lui dentro il nubifragio. In questo modo s’annunciò Senna nel 1984 a Montecarlo, dentro svariati spessori di pioggia, i muri che lui sapeva attraversare con estrema grazia. Arrivò secondo, quel giorno, dietro Prost, e aveva una faccia da bimbo. Il francese, invece, appoggiava sguardi adulti su ogni cosa: forse avrà capito in quel momento che creatura fosse apparsa, per lui a combattere e per noi cuori travolti.
Ed è stata tutta una tormenta, lampi nel cielo e senso di pienezza. Più che un campione del volante, forse il più grande di ogni tempo, Ayrton Senna è stato un uomo a forma di temporale. Dieci anni è durata la grande avventura sui bolidi, ma prima lui aveva governato i go kart come se fossero astronavi per le stelle, un fuoriclasse della messa a punto, pignolo come nessuno. Tanto si dimenava nel combattimento con la macchina, Ayrton, da scrostare con le suole la vernice dal telaio. Perché è così che funziona, finché non hai dato tutto non hai dato niente, e pazienza se poi quel tutto svanisce di colpo. Prima, è stata solo vita.
Trent’anni sono un passaggio, un passo, una cadenza. Già, il 1994. Quel rigore di Roberto Baggio (il suo addio al calcio, a proposito, giusto vent’anni fa), le tangenti del malaffare, il primo governo Berlusconi. E infine un pomeriggio di maggio, quando i lavoratori non faticano ma festeggiano, solo la morte non si riposa mai. Il Gran Premio era al 7° giro, le 14.17. Ayrton Senna appoggiò il capo di lato, dolcemente, come un bambino quando s’addormenta.

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