Un dosaggio a misura d’uomo
DI MICHELE SERRA
Vinitaly ha riacceso il dibattito mediatico, già vivace, sugli effetti del vino sulla salute umana, per alcuni nefasti, per altri virtuosi, con severa condanna medico-scientifica nel primo caso, e lieta assoluzione cultural-gastronomica nel secondo. Quaresimali contro dionisiaci.
Mi sembra che manchi — o forse mi è sfuggita — una lettura serenamente stoica della questione: sì, il vino fa abbastanza male, e molto male se ci si ubriaca. Ma è così buono, così saturo di storia e di fascino, così prodigo di aromi e sapori, che moltitudini di persone lo considerano una presenza imperdibile nelle loro case e nelle loro vite. L’idea che “faccia bene” e basta è puerile e autoassolutoria; il vino fa parte delle innumerevoli esperienze piacevoli della vita che non sono a costo zero e comportano rischi. L’idea che “faccia male” e basta è sterile e monocorde, evita di affrontare il problema del piacere (che è parte grande della vita) e trascura gli effetti benefici che il piacere stesso trasmette a noi umani.
Vivere consuma, questo è certo. Cercare di cavalcare la tigre senza farsene disarcionare, o divorare, è quanto cerchiamo di fare, chi meglio chi peggio, dalla nascita alla morte. L’incoscienza dei rischi, e di quelle catastrofi personali e sociali che sono le dipendenze, è imperdonabile. Ma il salutismo forsennato, che ci illude di diventare quasi immortali però chiusi in una gabbia sterile, non è un metodo efficace per aiutarci a sbagliare di meno. Semmai, come ogni forma di proibizionismo, trasforma una buona causa, la salute, in un dovere morale. E tra dovere e piacere, ci sarà pure un dosaggio “a misura d’uomo”… Un bicchiere? Due?
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