martedì 30 aprile 2024

Metamorfosi silente



Ti accorgi che le cose stanno cambiando, entrando per la prima volta nella cosiddetta “Casa della Salute”, ambiente ovattato, lindo, efficiente. Coda alle casse, nessun lamento, silenzio consenziente. Traspare il pensiero comune “qui si che tutto fila per il meglio, non come all’Asl o, peggio ancora in ospedale!” 
Peccato che, scientemente, stanno inferendo colpi mortali alla sanità pubblica, che funzionava bene, troppo bene, senza lasciar moneta alla malabolgia privata. Meno medici, pochissimi infermieri, stipendi da fame e oplà il gioco è fatto! 
Pur pagando tasse per il servizio pubblico, mettiamo contenti mano al portafoglio per pagarci cure veloci nel lindo mondo tipico della “Casa della Salute!” 
Che razza di coglioni siamo oramai diventati?

Ma?



Ma l’articolo 11 della Costituzione non recita: “L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo?” Chiedo per un amico…

Ad un passo dalla normalità




Piano piano, lemme lemme, borotalcando le norme costituzionali antifasciste, le braccia alzate si stanno inesorabilmente moltiplicando, agevolando tale macabro rimembro nel recinto della normalità. “Lasciateli in pace, che male fanno?” - “il fascismo non potrà mai tornare” - “finché non rompono le palle facciano quel che gli pare, siamo in democrazia no?” sono le frasi più ricorrenti tra i vari soloni nostrani. E se è pur vero che in democrazia ognuno dovrebbe essere libero di manifestare la propria identità politica, resta altresì un dubbio, macerante coscienze liberali: è questo il giusto modo di onorare coloro che spesero la propria vita per ridonarci la libertà? 
Non credo proprio. Assembramenti fascisti andrebbero combattuti e vietati. Anche se, a monte, aver eletto alla seconda carica dello stato un fascista, è presupposto per agevolare il riemergere del “nero perdi sempre” (cit.)


Selvaggiamente



di Selvaggia Lucarelli 

Questa frase pronunciata da @francescolollobrigida rappresenta un punto di svolta nella sua battaglia in difesa dei produttori di carne. Ed è un segnale di debolezza. Ha capito che il tema “benessere animale” negli allevamenti intensivi inizia a essere scarsamente credibile , assiste all’alba di una coscienza animalista che esce dalla nicchia e inizia a diventare più mainstream e ha capito che la difesa della bistecca ora deve passare per un nuovo argomento: gli animali non sono esseri senzienti. Secondo Lollo dunque gli animali non provano dolore, emozioni, piacere, paura, figuriamoci affetto. 

Si tratta ovviamente di una strategia comunicativa per togliere dignità alla vittima, una strategia attuata in tutti i campi in cui si ha la necessità di legittimare un abuso, una violenza, uno sterminio. Le vittime di genocidio, nella storia, sono state costantemente paragonate ad animali per umiliarle e favorire il convincimento che fossero prive di principi morali, oggi siamo al passaggio successivo. In un momento in cui si inizia a parlare a voce PIÙ alta di DIRITTI animali e di antispecismo, Lollo ha un problema. 

Non può più negare la sofferenza a cui condanniamo animali privati di dignità, luce, socialità, gioco, natura. E quindi passa a negare il fatto che gli animali siano esseri senzienti. Sì, forse non li trattiamo benissimo, ma tanto mica sono come noi, mica “sentono”, mica sono esseri sensibili. La violenza è dunque legittimata. O comunque addolcita dall’idea che si sopprime  qualcosa, non qualcuno. Se dunque la strategia di deumanizzazione prevede quasi sempre che gli uomini diventino animali, la strategia di oggettivazione degli animali prevede che diventino cose. Intendiamoci: il sistema produttivo prevede già che gli animali siano concepiti come merce, come “cose”. 

Ma la comunicazione e il marketing sono sempre andati nella direzione opposta, quella dell’ occultamento di questo principio, tant’è che pubblicità e narrazione romantica di Coldiretti vogliono mucche felici al pascolo e vitellini felici di essere separati dalle madri appena nati e ammazzati con uno sparo in testa. Questa comunicazione  è un cambio di passo. A quanto pare Lollobrigida ha paura. Dunque è un essere senziente pure lui. Chi l’avrebbe mai detto.

Scanzianamente vero

 

Tafazzismo a sinistra o come far governare Meloni altri 20 anni
di Andrea Scanzi
L’Italia è governata da un branco di scappati di casa. Eppure, nei sondaggi, Donna Giorgia tiene. Ciò dipende anche dal tafazzismo del centrosinistra. Ecco qualche esempio.
Salis. Degli harakiri qui citati, questo è il meno grave perché nasce col tentativo nobilissimo di salvare la vita a una ragazza reclusa in Ungheria in condizioni disumane. Purtroppo l’idea di Fratoianni ha due controindicazioni. La prima è che non è per nulla sicuro che, ammesso che venga eletta (cosa tutt’altro che scontata), Orbán “restituisca” Salis. Anzi, questa mossa potrebbe persino peggiorare la situazione. Salis ha poi subito più di una condanna definitiva in Italia: davvero Avs vuole far coincidere la sua immagine con quella che il mondo (a torto o ragione) ha di Ilaria Salis? Non rischia, questa mossa, di essere un’altra candidatura-figurina “alla Casarini”, che esalta i centri sociali ma allontana le masse?
Piciernismo. Schlein deve capire che non basta candidare belle persone come Evi e Tarquinio se poi nel frattempo continua a proporre residuati renziani che al tempo (tremendo e imperdonabile) del Mister Bean di Rignano si mostrarono mediaticamente e politicamente “efferati”. Come può il Pd pensare di recuperare i voti degli astenuti e/o delusi se insiste sulle Pina Picierno, emblema ieri del renzismo più improponibile (ricordate il suo scontrino da Floris?) e simbolo oggi dell’“europeismo” più cieco e ottuso?
Calendismo. Ogni volta che Calenda e Renzi raccattano un capobastone al Sud e vanno oltre le loro percentuali nazionali stitiche, c’è sempre un Cappellini (con rispetto parlando) o un Guerini (sic) che consigliano al Pd di cestinare Conte per tornare con i padroncini decaduti del centrismo abortito. Non impareranno mai.
Arsenio Fassino. Caso mediatico sul nulla? Cleptomania senile? Lupin in salsa sabauda? Malinteso enorme? Sia come sia, Fassino – politicamente parlando – è sempre stato un gigantesco sfollavoti, diversamente profetico, simpatico come Magliaro e carismatico come un fagiolo lesso. E nel Pd è uno dei pezzi grossi!
La democratica Annunziata. Classica giornalista definitasi “grande” da sola, debole come dialettica e ancor più come scrittura, lenta e involuta, perfetta per dare a Fratelli d’Italia l’argomento liso secondo cui “prima in Rai erano tutti di sinistra”. Aveva garantito che non si sarebbe candidata, e con consueta coerenza (non) è stata di parola. Annunziata – un tempo lontano pasionaria al manifesto – è la classica paladina di quasi-sinistra che grida alla censura se colpisce qualcuno vicino al Pd, ma si mostra poi menefreghista e/o spietata se il censurato è più a sinistra di lei (ci vuol poco) tipo Santoro o Luttazzi. Dire che il nuovo Pd coincide con Annunziata è come dire che il futuro dell’automobile è la Duna.
Scuratismo. Vedi sopra. Il diversamente allegro Scurati è bravo, e quel che è accaduto in Rai è l’ennesima vergogna. Ciò detto, anche basta con questo martirologio: Scurati non è Giordano Bruno e non è neanche Biagi. Il centrosinistra dovrebbe smetterla di strapparsi le vesti solo per chi sente vicino e sbattersene le palle (o magari esultare) quando i censurati e querelati sono gli altri. Per esempio quegli stronzi del Fatto.
Brigata Raimo. La palma della tafazzata dell’anno la vince Avs per la candidatura di Christian Raimo, uno che da decenni va in tivù (senza che gli spettatori se ne accorgano) con l’unico intento di aver sempre torto anche quando avrebbe ragione. Saccente, bolso, autoreferenziale, dialetticamente accattivante come un’omelia in aramaico di Bonelli e compiaciutamente anacronistico come una spallina degli anni Ottanta indossata da Achille Lauro. In un ipotetico dibattuto tra lui e La Russa, probabilmente persino Gramsci avrebbe provato l’orrenda perversione di dare quasi ragione al camerata Ignazio.
Di questo passo i Donzelli & Santanchè governeranno per altri vent’anni. Daje!

Su l'ebetismo

 

Giorgia detta Giorgia
di Marco Travaglio
Memore del caso del forzista Deodato Scanderebech, che regalava un normografo col suo nome e cognome temendo che gli eventuali elettori sbagliassero a scriverli, Giorgia Meloni ha voluto agevolare i suoi seguaci. Che lei reputa talmente svegli da entrare nel panico quando, soli e indifesi nella cabina elettorale, devono scrivere un nome strambo come Giorgia e un cognome complicatissimo come Meloni e, sudando copiosamente, imprecano contro la matita copiativa: “Ma ‘sta benedetta donna non ce l’avrà un soprannome?”. Così ha pensato di agevolarli, precisando in lista che lei è “Giorgia Meloni detta Giorgia” (anche se pretende di essere chiamata “Signor Presidente del Consiglio”, appellativo più confacente a un Giorgio). È un’astuta forma di camuffamento che adotta fin dall’infanzia, quando giocava a nascondino e un amichetto la scopriva: “Abbello, io nun so’ Giorgia: io so’ Giorgia”. Tecnica utilissima anche oggi ogni volta che fa l’opposto di ciò che aveva promesso, cioè sempre: “Abbelli, quella era Giorgia, io so’ Giorgia”.
La rivelazione ha subito colto di sorpresa i suoi fan, convinti che, chiamandosi Giorgia, la Meloni fosse detta Ludmilla, Genoveffa, Clarabella o altri nomignoli tipici delle Giorge. Ma li ha anche rassicurati: chi, non ritenendosi in grado di scrivere Giorgia, già meditava di astenersi, correrà a pie’ fermo alle urne sapendo di poter scrivere comodamente Giorgia. Ora si spera che nessun’altra lista presenti candidati o candidate detti o dette Giorgia, sennò è un casino. Ma sarà divertente vedere la faccia degli elettori quando scopriranno che Giorgia detta Giorgia s’è fatta eleggere al Parlamento europeo per non metterci piede, sennò dovrebbe rinunciare a fare la premier e la deputata. Cioè: han fatto una fatica bestia a scrivere Giorgia sulla scheda senza sapere che stavano eleggendo qualcun altro (sicuramente maschio) che nessuno conosce, ma di certo non si chiama Giorgia e non è neppure detto Giorgia. Per evitare di sputtanarsi, infatti, nessun altro premier dell’Ue si candida al Parlamento europeo. Come nessun deputato nazionale negli altri 26 Paesi. Qui invece lo fanno Giorgia detta Giorgia, Elly Schlein, Antonio Tajani (quello che “sarebbe un errore candidare i leader all’Ue”) e Carlo Calenda (quello che “chi si candida sapendo di non andare in Ue svilisce e prende in giro gli elettori”). Quindi, a parte Conte, Salvini, Bonelli e Fratoianni (Renzi si vedrà), nessuno sarà titolato a soprannominare pagliaccia Giorgia detta Giorgia e nessun giornalone segnalerà la truffa, visto che tifano tutti per i truffatori. Anzi, corre voce che Calenda stia pensando di precisare sulla scheda “Carlo detto Giorgia”: magari qualcuno per sbaglio lo vota.

L'Amaca

 

Giorgia e Thomas Mann
di Michele Serra
Stavo cercando il modo meno retorico (dunque meno vago) per spiegare la profonda ostilità che mi ha suscitato il discorso — ennesimo — della presidente del Consiglio Meloni, in arte Giorgia, a proposito del suo essere «una del popolo». In contrasto, bene inteso, con la masnada di fighetti e debosciati che le si oppone, i famosi radical chic(numericamente, stando ai votanti, circa la metà degli italiani: che dunque, a milioni, sarebbero esclusi, anzi autoesclusi, dal concetto stesso di popolo).
Ci stavo pensando, dicevo, quando mi arriva una preziosa mail della lettrice Olga (ometto il cognome per tutelarla da eventuali rappresaglie social), con questa citazione di Thomas Mann, da Doctor Faustus : “Per chi è di idee progressiste la parola e il concetto di ‘popolo’ conservano un che di arcaicamente apprensivo. Egli sa che basta apostrofare la folla chiamandola ‘popolo’ per indurla a malvagità reazionarie… Lo strato arcaico c’è in ognuno di noi, e non credo sia la religione il mezzo più adeguato per tenerlo sotto chiave. A tale scopo servono la letteratura, la scienza umanistica, l’ideale dell’uomo libero e bello”.
Quel libro è stato scritto negli ultimi due anni della Seconda Guerra, e pubblicato nel ’47. In quanto intellettuale e in quanto antinazista (esule negli Stati Uniti), Thomas Mann è ampiamente sospettabile di essere stato unradical chic ante litteram . Ma l’idea che solo letteratura e scienza umanistica possano salvare gli umani dal loro “strato arcaico” lo qualifica, più precisamente e con il senno di poi, come un rivoluzionario. E la sedicente Giorgia, ma già lo si sapeva, come una reazionaria, che dello “strato arcaico” ha fatto il suo motore politico. Chi vincerà? Golia, ovvero il populismo, o Davide, ovvero la democrazia?

lunedì 29 aprile 2024

Pino e il Vannacci



Vannacci, il nulla contundente che rischia di “grigliare” Salvini

Un florilegio continuo di amenità reazionarie. Ma per il segretario leghista può essere l’ultima spiaggia fatale

di Pino Corrias

Il cefalo Salvini naviga in superficie e ancora non lo sa, ma Roberto Vannacci, la nuova felpa elettorale della Lega, esperto pescatore di Versilia è pronto a cucinarselo sulla prossima brace di Bruxelles con il ricco contorno delle sue buie idiozie. Se incasserà tanti voti quanti libri veduti, e quante pernacchie ricevute, diventerà lui il generale della Lega, tanti saluti al cefalo che tornerà a spiaggiarsi come ai tempi comici del Papeete, estate 2019, senza neanche le pupe in tanga a saltellare sulle note dell’inno di Mameli. Se invece la sua incursione politica risulterà una grottesca esercitazione d’improperi senza incremento elettorale, bè, saranno i colonnelli della Lega, specialmente i veneti e i lombardi, a accendere sul pratone di Pontida il fuoco della congiura secessionista per fare la festa a quel che resterà di Salvini, un segretario pronto per il ripostiglio delle scope. E forse anche un ex ministro da incorporare ai 143 costosissimi progetti del Ponte sullo Stretto, destinati da mezzo secolo al macero.
Dopo 250 mila libri venduti e altrettante interviste – ultimissime perle “le scuole separate per i disabili”, e “Mussolini statista” – Vannacci s’è finalmente sfilato la vestaglietta a fiori che esibiva lo scorso Capodanno a Viareggio, per indossare i panni del candidato alle prossime Europee. Circostanza che tutti i giornali analogici, digitali, televisivi, psicosociali, hanno collocato subito dopo la notizia del Papa al prossimo G7 a dire quanto le gerarchie della politica e del buon senso stiano annegando nel marasma dell’indistinto culturale.
Candidato sicuro di sé oltre ogni ragionevole dubbio, il capomanipolo degli incursori, conquisterà il seggio per avere detto e scritto il nulla contundente che fiorisce tra i tavolini dei bar della Nazione, quando passa lo Spritz a innaffiare le chiacchiere che dal trifoglio del moderatismo conformista si voltano nella gramigna reazionaria con attitudini aggressive.
Apre il catalogo “il sacro suolo della Patria”. “L’ho difesa sotto i colpi del mortaio e della mitraglia”. Nessun sacrificio è troppo grande, compreso quello della “leva obbligatoria” per gli smidollati ragazzi italiani “che non sanno cosa sia la vita”, avendo “rinunciato alla virilità”. Dopo la patria vengono il Dio degli eserciti e la famiglia della tradizione. Dunque cristiani sempre. E abbasso la cultura gender, gli uomini con le gonne, i trans, gli omosessuali, che “mi dispiace, ma non sono normali”, detto da uno che si definisce “un maschio testosteronico”.
Segue un inchino a tutte le donne, ci mancherebbe, che devono fare le donne e possibilmente i figli. Guai alle femministe che “sono fattucchiere” di cultura “difforme” e che rivendicano l’aborto come un diritto, invece di riconoscerlo come “una infelice necessità”.
Massima allerta sugli immigrati “che sono troppi”, disturbano l’unicità dei popoli che altrimenti “diventano paccottiglia”: “Quanti ne vogliamo, cinque milioni, dieci milioni, e poi?”. La paccottiglia comprende i neri di pelle, ovvio. “L’italiano è bianco, lo dice la statistica”. Quindi la nerissima Paola Egonu, è fuori dalla statistica anche se indossa la maglia di pallavolista nazionale: “I suoi tratti somatici non rappresentano l’italianità”. Che invece scalda il cuore del generale – proprio come fa l’Aperol nello Spritz – dove sgocciola un intero sussidiario di antenati: “Ritengo che nelle mie vene scorra una goccia di sangue di Enea, Romolo, Giulio Cesare, Dante, Fibonacci, Lorenzo De’ Medici, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Mazzini, Garibaldi”.
Anche se Giulio Cesare, Leonardo, Michelangelo – il generale non lo sapeva prima che l’avvertissero del misfatto – appartengono tutti a quelle “lobby gay” che tanto gli stanno sul testosterone.
Militare di carriera figlio di militari, Roberto Vannacci nasce il 20 ottobre 1968 a La Spezia. Cresce a Ravenna. Ma specialmente a Parigi dove vede per la prima volta esseri viventi di colore nero rimanendo colpito dal “netto contrasto con il bianco dei loro bulbi oculari”. Passato lo stupore, “i neri smisero di incuriosirmi”, ricorda, anche perché “tra i marmocchi con cui mi arruffavo” nei cortili di Parigi, ce n’era più di qualcuno. Straniero tra gli stranieri “mi sono sempre considerato diverso rispetto al contesto nel quale vivevo”. Da lì, il crescente amor di patria: “Ero italiano e ne facevo un punto di orgoglio”.
Indossa presto la divisa. Studia Scienze strategiche e Relazioni diplomatiche. Entra nei corpi speciali. Si laurea atleta di guerra. Va in missione in Somalia, Ruanda, Yemen, Costa d’Avorio, Iraq, Libano, Libia, Afghanistan, dove i nostri miliari, secondo i telegiornali italiani, fanno buona diplomazia, portano giocattoli e pennarelli ai bimbi indigeni. Scala la gerarchia fino alla nomina di generale della Brigata paracadutisti della Folgore, anno 2016. Tre anni dopo entra in urto con le gerarchie militari sul tema spinoso dei proiettili all’uranio impoverito, veleno per i soldati nei teatri di guerra. Vannacci non sta zitto, accusa l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone di avere mentito alla Commissione parlamentare presieduta da Gian Piero Scanu, deputato pd, minimizzando i danni dell’uranio sui fronti dell’Iraq e dei Balcani. Da qui la ruggine con lo Stato maggiore e pure con Guido Crosetto, che invece le armi le coccola da molto prima di fare il ministro della Difesa.
Tra una guerra e l’altra si sposa con Camelia, ragazza rumena, fa due figlie, oggi adolescenti. Quando non gira il mondo, vive a Viareggio, patria della anarchia e opportunamente del carnevale in maschera. Va in palestra, prende il sole ai bagni Balena. Ha pochi amici, niente cene, niente salotti. Fino a un anno e mezzo fa non lo conosceva nessuno. Oggi – per colpa sua e nostra – traversa la Passeggiata a cavallo della sua fama. Tutti stupiti che dalla massima riservatezza, sia passato ai fuochi d’artificio di generale Tempesta. Dal silenzio, alla prosopopea che esibisce in tv. Lui fa gli occhi dell’uomo saputo: “Ho imparato a trattare con i talebani che mettevano il Kalashnikov sul tavolo, ogni parola una minaccia. Figuriamoci se mi impressionano le chiacchiere della politica”. Quelle ce le mette il povero Salvini, quando lo difende per difendere sé stesso. Al generale basta e avanza il Kalashnikov. A noi i popcorn.

Solo Giorgia!



Solo un nome e tutto si risolverà! Paura di non farcela? Devi scucire soldi per curarti? Hai pagato le tasse onestamente e ti senti un coglione? Avverti in Europa la stessa considerazione di un Gasparri al Cern? Hai fatto la coda per aggiungere una tettoia alla tua casa scatenando l’ilarità generale dei vicini che hanno usufruito dell’ennesimo condono? Scrivi Giorgia, solo Giorgia, e Lollo cenerà a casa tua con la sua sapienza!

domenica 28 aprile 2024

Detto



Favatam corda consolatur, intellectum accendit, audaces impellit! (Cicerone)

Santa(de)che story

 


La contessa Max, del chiaro ed incontrovertibile "io so' io e voi non siete un c...!" 

Sul frottolaio

 

I pistola fumanti
di Marco Travaglio
Oltre a mandarci i migranti dall’Africa, a pilotare le fake news, a far vincere la Brexit, a far eleggere Trump, a far rincoglionire Biden, a ispirare Dostoevskij e Cajkovskij prim’ancora di nascere, a dirigere occultamente il Fatto e tutte le altre cose brutte che accadono sull’orbe terracqueo da tre secoli a questa parte, ora Putin vuole “favorire l’astensionismo in Italia”. L’ha detto il sottosegretario Alfredo Mantovano, dunque dev’essere vero. Anche perché i suoi toni non ammettono dubbi: “Non si può escludere che ci siano ingerenze russe nella campagna elettorale per le Europee. In Spagna ci sono state, non per favorire una parte o l’altra, ma per delegittimare l’intero sistema. E può accadere anche in Italia”. Apperò: è quel che si dice la pistola fumante.
Non sappiamo in Spagna, ma in Italia il sistema lo delegittima e l’astensionismo lo fomenta la Meloni che, come Schlein e Tajani, si candida alle Europee già sapendo che al Parlamento europeo non metterà neppure piede. Promette di abolire le accise e abolisce lo sconto sulle accise. S’impegna a “tutelare i diritti del Superbonus e migliorare le agevolazioni edilizie”, poi dice che “il Superbonus è una tragedia contabile, la più grande truffa ai danni dello Stato”. Si tiene ministri imbarazzanti tipo Santanchè e poi fa la morale agli inquisiti (e pure ai non inquisiti) altrui. Promette legalità contro mafie e corruzione, poi fa approvare una ventina di leggi pro mafia e corruzione e prepara un indulto mascherato, ma solo dopo il voto per fregare meglio gli elettori. Offende i contribuenti onesti definendo le tasse “pizzo di Stato” e varando 18 condoni fiscali in due anni. Vaneggia di blocchi navali e piani Mattei, intanto gli sbarchi di migranti triplicano. Mette sul lastrico centinaia di migliaia di poveri, insultandoli pure come fancazzisti. Giura di abolire la Fornero, poi la riesuma riuscendo financo a peggiorarla. Predica il sovranismo e poi appalta la politica estera a Biden, Stoltenberg, Ursula e Zelensky e quella finanziaria agli euro-falchi. Strilla all’Ue “la pacchia è finita”, poi si genuflette all’Ue firmando un Patto di Stabilità tutto lacrime e sangue, infine si astiene sul medesimo. In privato, a due comici russi scambiati per ambasciatori del Catonga, dice che fra Ucraina e Russia urge “soluzione che sia accettabile per entrambe le parti”, ma in pubblico continua ad armare Kiev “fino alla vittoria”. Non spende una parola sul massacro di palestinesi a Gaza e si astiene all’Onu sulla tregua. Annuncia una tassa sugli extraprofitti bancari, poi torna indietro dopo una telefonata di Marina B.. Intanto piazza ai posti di comando i parenti suoi e dei suoi. Putin, lo sappiamo, è il diavolo in persona. Ma come spingitore di astensionisti, al confronto, è una pippa.

Totalmente d'accordo!

 

Il caso
Il partito pigliatutto Quei sintomi inquietanti di democrazia illiberale
DI STEFANO CAPPELLINI
ROMA — La foto di Pescara, con i manager di Stato trasformati in testimonial di Giorgia Meloni, è meglio di un abbecedario per spiegare quali sono i sintomi di una democrazia illiberale. Cos’è la democrazia illiberale? È quella democrazia che conserva i rituali formali, in primo luogo le elezioni, e al contempo perde la sostanza. Si svuota di quei meccanismi che regolano la distinzione dei ruoli, la terzietà delle istituzioni e la separazione dei poteri. È una democrazia menomata dove chi vince le elezioni si ritiene naturalmente proprietario dello Stato e di tutto ciò che lo Stato partecipa o il governo controlla, come appunto le aziende pubbliche o le agenzie nazionali. Una democrazia azzoppata nella quale il consenso elettorale viene brandito come un clava per ridurre o eliminare i contrappesi e poteri autonomi, dalla magistratura ordinaria a quella contabile, dalla libera informazione alle figure di garanzia.
Nello specifico italiano, la presidenza della Repubblica, il principale bersaglio della riforma istituzionale già incardinata in Parlamento, il cosiddetto premierato, che punta ad abbattere l’arbitro del sistema per eccellenza, il Quirinale, affinché chi è investito del voto popolare non debba rendere conto a nessuno se non agli elettori e nemmeno tutti, solo i suoi, secondo la logica perversa di un sovranismo plebiscitario. Per questo, negli intenti della riforma, anche il Parlamento va messo nelle condizioni di non poter esprimere in corso di legislatura un presidente del Consiglio alternativo a quello indicato dalle urne: la chiamano norma anti-inciucio, per vellicare i più bassi istinti populisti, mentre invece è un altro passo verso quei pieni poteri invocò invano dal Papeete Matteo Salvini. Il quale, caduto nel frattempo in disgrazia, contribuisce come può alla devastazione di ogni grammatica candidando Roberto Vannacci, generale dell’esercito in attività sebbene ormai fuori controllo.

Negli ultimi mesi si sono moltiplicati i casi di ingerenza, invasione e interdizione, in diverse direzioni. Ci sono stati gli attacchi ripetuti alla Corte dei conti, rea di aver acceso un faro sulla riscrittura del Pnrr e sul rischio concreto di mancato raggiungimento degli obiettivi prefissi. Per ritorsione, lo scorso gennaio il ministro degli Affari europei Raffaele Fitto, altro esponente di FdI, ha sottratto alla nostra magistratura contabile la nomina del rappresentante italiano presso la Corte dei conti europea, affidando l’incarico a un suo fedelissimo. Ci sono gli sfregi al Parlamento, ultimo dei quali è l’incredibile caso accaduto alla Camera dei deputati, in commissione Affari costituzionali, sull’autonomia differenziata. Il governo è andato sotto in una votazione a causa dell’assenza di alcuni parlamentari di maggioranza. Nessun problema: il presidente della commissione Nazario Pagano, in questo caso di Forza Italia, ha congelato l’esito per poter chiudere lavotazione a ranghi completi e così ribaltare il risultato. C’è la vicenda della censura in Rai al discorso sul 25 aprile dello scrittore Antonio Scurati. Al di là dell’evidenza dei fatti, rivelante è il particolare che, scoppiato il caso, a intervenire per replicare alle accuse di censura è stata Meloni in persona, di fatto rivendicando l’intervento («Propaganda a spese dei contribuenti») e facendo cadere anche l’ultimo velo di finzione su quella che la presidente del Consiglio considera la vera catena di comando aziendale.
Ma la foto di Pescara restituisce anche la debolezza di una classe dirigente, quella di nomina politica, che scambia l’investitura ricevuta per una forma di vassallaggio che incorpora dunque l’omaggio al feudatario. Il problema è duplice: da una parte un partito di governo cheritiene naturale trasformare in cartelloni pubblicitari due importanti boiardi mettendo loro in mano una maglietta con lo slogan elettorale di FdI; dall’altra i due dirigenti - Stefano Pontecorvo, presidente di Leonardo, la più grande azienda italiana insieme a Eni, e l’ex prefetto Bruno Frattasi, capo dell’Agenzia per la Cybersicurezza, la cui importanza non ha bisogno di essere spiegate – che la ostendono sorridenti e compiaciuti a favore di obiettivo. Se il gesto voleva rappresentare una adesione militante alla campagna elettorale meloniana, la gravità e il danno ai rispettivi incarichi sono evidenti. Ma anche a prendere la loro disponibilità allo scatto per altra cosa, un atto di malintesa cortesia davanti a una richiesta dei padroni di casa, le conclusioni sono persino più inquietanti: se non si sentono in grado nemmeno di declinare in pubblico una proposta irricevibile, cioè l’arruolamento coatto in una foto di propaganda, c’è da dubitare su quale possa essere il loro grado di autonomia di fronte alla telefonata proveniente da un ministro o da Palazzo Chigi.
Fratelli d’Italia è un partito dichiaratamente sovranista che, come tutte le forze politiche gemelle nel resto d’Europa, insegue e alimenta questa confusione tra partito e governo, partito e Stato, partito e aziende pubbliche. All’ultima assemblea dei dirigenti di Leonardo, il giorno dopo la presentazione del piano industriale da parte dell’ad Roberto Cingolani, il ministro del Tesoro Giancarlo Giorgetti ha mandato un composto videomessaggio, quello della Difesa Guido Crosetto si è invece presentato di persona e ha tenuto un discorso. A un certo punto ha pronunciato una frase che faceva così: dicevano che io fossi in conflitto di interesse con l’azienda, io invece sono in conflitto di interessi con voi, perché vi conosco tutti e so quando dite la verità e quando no. Dietro l’ironia, un’altra rappresentazione plastica di un rapporto non proprio equilibrato tra un ministro e un’azienda quotata che ha tra i suoi clienti anche il governo. Un mese dopo quell’assemblea, il presidente di Leonardo è sul palco di Pescara, insieme a Crosetto, a esibire lo slogan che accompagna la corsa di Meloni a Strasburgo: «L’Italia cambia l’Europa». Se questo è il cambiamento, si può solo sperare che l’Europa resista.


L'Amaca

 

Un cane e la sua padrona
DI MICHELE SERRA
Invece di braccare i fagiani, il giovane pointer Cricket inseguiva le galline, con grave detrimento dell’onore venatorio della sua padrona cacciatrice.
Che dunque lo ha eliminato sparandogli una fucilata,“perché andava fatto”.
Sarebbe solo una delle tante storie di brutalità e idiozia umana a discapito delle bestie, non fosse che la signora in questione è l’attuale governatrice del South Dakota, Kristi Noem, e ha raccontato l’esecuzione a freddo del suo cane in un libro autobiografico, con una certa fierezza: una specie di prova di iniziazione (a che cosa?), la dimostrazione che Kristi, di fronte alle difficoltà della vita, non arretra. Come un vero ometto.
Mal gliene incolse: un inevitabile putiferio politico e mediatico ha accolto il racconto, effettivamente ripugnante, dell’uccisione di Cricket. E poiché la signora Noem è una delle più accreditate candidate alla vicepresidenza — ovviamente al fianco di Trump — è fortemente possibile che questa storia le costi la candidatura. Per una ragione specifica: non esiste argomento più trasversale dell’animalismo, e sparare a un cane o a un gatto non solo è reato perfino laggiù nel South Dakota, ma genera uno stigma immediato, con grande rimbalzo sui social. Poi c’è una ragione più generale: il tasso di intelligenza di una persona che non solo ammazza il suo cane per futili motivi, ma lo racconta pure, è con ogni evidenza piuttosto basso. È probabile che questo secondo argomento, in una campagna elettorale, sia meno importante. Vale comunque la pena ribadirlo, inviando nel contempo un malinconico saluto a Cricket.

Se avete tempo e voglia

 


Il Longform di Repubblica su Ucci Ucci Angelucci! 
Occorre tempo, voglia e Maalox per leggerlo. 


Angelucci, l’impero

dell’uomo nero

DI GIULIANO FOSCHINI CLEMENTE PISTILLI

Quella di Angelucci Antonio, detto Tonino, è una storia che non ci si crede. È il sogno italiano: l’ex portantino dell’ospedale San Camillo, con la licenza di scuola media, che diventa il re delle cliniche, con fatturato da 148 milioni di euro all’anno e un vitalizio annuo dalle sue aziende di quattro milioni, oltre allo stipendio e ai benefit da parlamentare. Bingo. Ma è anche la sintesi, e un poco la vergogna, di un certo modo di fare politica, e dunque potere, in Italia: «Giuro che è così: guardi qui, in quattro legislature il deputato Angelucci non ha mai tenuto un intervento in aula. Ecco il numero degli interventi: zero, zero, zero, zero» dice, con un ghigno tra il beffardo e il rassegnato, un vecchio funzionario parlamentare, uno di quelli che le ha viste tutte in più di trent’anni di lavoro, ma no, una cosa così mai. Tonino Angelucci è il contrario di ogni cosa. È il parlamentare più ricco ed è quello più assente: più del 99 per cento in questa legislatura, 96 nella scorsa, 99,59 di assenze in quella precedente, più del 70 alla prima. È un imprenditore che dà le carte alle politica, controllandola. Ma lo Stato è anche il suo primo cliente: se un giorno i soldi pubblici dovessero venire meno, il suo impero crollerebbe. È l’uomo più esposto (editore di giornali, padrone entusiasta di media: non c’è trattativa nel mondo dell’editoria, per l’acquisto di agenzie di stampa, radio, televisioni, in cui non spunti il suo nome) e insieme l’uomo più nascosto: non solo in Parlamento, ma anche fuori, non si ricorda una sua parola, una presa di posizione pubblica. È un muto con il megafono, «perché così anche i silenzi possono fare un grande rumore», racconta uno dei signori della sanità italiana, che Tonino lo conosce da più di cinquant’anni.

La politica

Fare «rumore con i silenzi». Tra le doti di Tonino Angelucci, questa deve essere la più importante, o sicuramente una delle più importanti. Non si spiegherebbe altrimenti la carriera politica di questo imprenditore che nonostante numeri e attività parlamentare da avere vergogna, ha nel curriculum ben quattro legislature e con due partiti diversi (Forza Italia di Silvio Berlusconi prima e la Lega di Matteo Salvini poi) . Perché eleggere per venti anni il re dell’assenteismo? E soprattutto: se così disinteressato alla politica, nel senso di attività di aula; se così distratto dai microfoni e dai riflettori, per quale motivo uno degli uomini più ricchi e influenti d’Italia, proprietario di un impero nella sanità, nell’editoria, nel mattone, impone la sua (non) presenza in Parlamento?

Le risposte possibili sono diverse. Nel senso che sono tante e articolate.

Innanzitutto: Tonino Angelucci è un buon amico. Lo sa Denis Verdini, che quando non immaginava di finire in manette, dopo che la Banca d’Italia commissariò il suo Credito cooperativo fiorentino di cui era presidente, riuscì a ripianare il rosso – così come gli era stato imposto da via Nazionale – soltanto grazie a un prestito del re delle cliniche (che in cambio ottenne un’ipoteca di Villa Gucci, la grande villa fuori Firenze di proprietà della famiglia Verdini). Ma lo sanno anche i dirigenti della vecchia Alleanza Nazionale (Gianfranco Fini in primis), quelli di Forza Italia e ora della Lega, con cui il gruppo Angelucci è sempre stato generoso, nel finanziare le campagne elettorali. Lo sa Matteo Salvini che a casa Angelucci si sente quasi in famiglia, tanto da festeggiare anche i suoi compleanni. E lo sa pure Giorgia Meloni: perché con Antonio ha sempre avuto un rapporto diretto di assoluto rispetto e soprattutto perché tante sono state le serate passate con suo figlio, Giampaolo, detto Napoleone, che al momento tira le redini della holding. E che ha un rapporto importante - si vedono spesso insieme nelle serate romane - con l’ex compagno della premier, Andrea Giambruno: erano spesso insieme, e ancora oggi li raccontano in rapporti di assoluta amicizia dunque, candidare e fare eleggere Antonio Angelucci significa portare in Parlamento un ottimo amico. Un uomo che sa essere sempre riconoscente.

Ma ancora: dalla prospettiva di Tonino, perché scegliere il Parlamento, per poi diventare il re degli assenteisti? Certo denaro e potere non possono essere in questo caso una leva. Ce n’è già abbastanza, in partenza. Raccontano che venti anni fa a spingere Angelucci verso la politica sia stata un’esigenza: l’immunità parlamentare. Ai tempi della prima elezione (siamo nel 2008) il gruppo Angelucci era inseguito da inchieste giudiziarie, cosa che in realtà non è mai smessa, seppur nessuna condanna definitiva sia stata mai emessa. La procura di Bari nell’estate del 2006 aveva arrestato Giampaolo e in un’indagine che vedeva indagato anche l’allora governatore, oggi ministro, Raffaele Fitto. Diverse inchieste coinvolgono poi direttamente Antonio (sempre a cavallo tra sanità ed editoria) ma viene sempre assolto: a oggi resta in piedi un’indagine della procura di Roma con l’accusa di aver tentato di corrompere l’ex assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D’Amato. Accusa che Angelucci, come vedremo, ha sempre respinto. D’Amato è stato il candidato governatore, sconfitto, per il centrosinistra alle ultime elezioni regionali nel Lazio. E ha avuto nell’onorevole Tonino il suo più grande avversario.

Ecco: il senso della politica per il gruppo Angelucci passa inevitabilmente anche per gli affari.

è in grado infatti di ricostruire in maniera analitica la situazione finanziaria del ramo sanitario, quello decisamente più importante, del gruppo Angelucci. Che ha un unico grande cliente: il Servizio Sanitario nazionale. Stando ai bilanci del 2022 sono stati i fondi pubblici a garantire il 94 per cento dei ricavi complessivi delle aziende. Senza i soldi delle Regioni, e di due in particolare, il Lazio e la Puglia, l’impero di Tonino Angelucci crollerebbe. Dunque, grida Tonino il muto: «Lunga vita allo Stato».

Dal Lussemburgo a Velletri

Se però gli affari sul campo si trovano principalmente tra Lazio e Puglia, il cuore economico dell’impero degli Angelucci è lontano dall’Italia, in Lussemburgo, dove è blindata la cassaforte di famiglia, la Holding Three. Come per primo raccontò negli anni scorsi il Sole 24 ore, si tratta di una struttura sociale abbastanza complessa. Che vede Three come un veicolo alimentato da due polizze vita milionarie. Il quotidiano Domani, sulla base di un documento dell’Uif, l’unità di intelligence finanziaria della Banca d’Italia, spiegò come il tutto si regga su tre polizze dal valore di 190 milioni che il deputato della Lega ha sottoscritto presso la Swiss Life Luxemburg Sa. Con quei fondi, gli Angelucci controllano la società Spa di Lantigos Sca, all’interno della quale c’è la Holding Three e, a cascata, le società italiane. Sia quelle sanitarie che fanno capo al San Raffaele di Roma sia quelle editoriali che invece fanno riferimento alla Tosinvest.

Perché una struttura di questo tipo? Quei fondi erano rimasti segreti fino al 2009 quando Angelucci ha approfittato dello scudo fiscale voluto dal suo allora compagno di partito, Giulio Tremonti, e - appoggiandosi a una delle società più attive nel rientro di capitali - ha scudato il suo tesoro rendendolo evidente anche in Italia. In questa maniera, non c’è più niente da nascondere. E soprattutto è stato possibile passare le quote a suo figlio, che oggi è il beneficiario delle polizze, senza pagare tasse.
Dunque, la cassaforte è in Lussemburgo. E a leggere gli ultimi bilanci presentati, è in buona salute. La Holding Three ha chiuso il 2022 con un utile di oltre 5,5 milioni rispetto ai 2,3 dell’anno precedente. Inoltre è indicato un calo della situazione debitoria, diminuita di circa 6 milioni (da 37,8 a 31).

I numeri delle società italiane raccontano, però, uno scenario più complesso che lega mani e piedi la stabilità del gruppo ai passi della politica. E, come vedremo, in particolare a quanto accade in due regioni dove l’impero degli Angelucci è particolarmente presente: il Lazio e la Puglia.
Le attività sanitarie di Angelucci fanno capo al San Raffaele di Roma che gestisce complessivamente 22 strutture, divise per cinque regioni italiane: 15 in Lazio, quattro in Puglia e una ciascuna in Basilicata, Sardegna e Abruzzo. Il core business è la riabilitazione oltre alla gestione delle Rsa, le Residenze sanitarie per anziani. Due settori che hanno subìto il maggior contraccolpo dalla pandemia, con il blocco degli interventi non urgenti che ha drasticamente diminuito le sale operatorie ortopediche (e dunque i trattamenti riabilitativi successivi) e la diffusione del virus nelle Rsa. Tutto questo si comprende plasticamente analizzando il fatturato delle cliniche passato dai 147,7 milioni del 2019 ai 117 del 2020, per poi tornare nel 2021 e nel 2022 ai vecchi livelli. I dati da tenere sott’occhio però sono diversi. Per esempio: il “capitale circolante netto consolidato” – ossia il dato sul quale viene parametrata le possibilità di fare cassa, rimborsare i debiti a breve termine e investire nella crescita aziendale futura – era positivo per 322 mila euro nel 2019. Ma dall’anno successivo ha portato il segno meno, arrivando a un -24,9 del 2022. In sostanza i livelli di passività sono superiori alle attività correnti. Come mai? Il problema principale riguarda le esposizioni verso le Amministrazioni regionali, sostanzialmente gli unici clienti del gruppo Angelucci. Perché, è vero, le Regioni pagano. Ma lo fanno sempre con tempi incerti e con ritardi che a volte diventano irragionevoli. Il punto è che non si tratta di situazioni straordinarie, ma di prassi: Lazio e Puglia - le due principali regioni dove si muove il gruppo San Raffaele - escono da piani di rientro sanguinosi. Non a caso, gli altri principali competitor hanno scelto un percorso di differenziazione degli investimenti, puntando sui clienti privati con prestazioni pagate direttamente dalle famiglie o sui fondi assicurativi, anche attraverso le piattaforme welfare. Cosa che invece gli Angelucci non hanno voluto fare, lasciando come si diceva il 94 per cento dei ricavi legato al rapporto con il Servizio sanitario. Non serve cambiare, pensano, anche perché per i soci le cose non vanno affatto male: sono stati distribuiti dividendi per 24 milioni e l’onorevole Tonino si è riconosciuto un vitalizio da quattro milioni che lo rende, appunto, il parlamentare più ricco.

La galassia editoriale

Nel bilancio del gruppo San Raffaele sono iscritti crediti per 239 milioni (+81 rispetto al 2021) verso società del gruppo, e in particolare nei confronti della Finanziaria Tosinvest, il ramo di impresa a cui fanno riferimento le imprese editoriali. Tosinvest (come d’altronde l’intero comparto) è in affanno tanto da aver drenato gran parte degli extra introiti arrivati grazie alla vendita di alcuni asset. In sostanza: la sanità procede, seppur con fatica, ma gran parte della zavorra per i conti arriva dall’editoria. In questo momento Angelucci controlla tre quotidiani,

Libero , Giornale e Tempo e a breve dovrebbe prendere il controllo, con la benedizione del governo Meloni, anche di un’agenzia storica come l’ Agi, di proprietà dell’Eni (e fa niente se si tratta di una controllata del ministero dell’Economia, guidata da un compagno di partito, il leghista Giancarlo Giorgetti). Perché allargare in un momento non semplice questo ramo del business? Tonino Angelucci è un buon amico. E i suoi giornali rappresentano uno straordinario mezzo per il governo per amplificare o silenziare (vedi l’inchiesta su Tommaso Verdini) il messaggio di giornata. Ma non è tutto: l’impero mediatico è anche e soprattutto un attrezzo cruciale per la casa madre. In particolare su quei territori in cui si fanno gli affari di casa Angelucci. È Tosinvest il megafono magico che fa risuonare le parole di Tonino il muto.

Non è un caso che negli ultimi tempi siano arrivati “in casa” i giornali milanesi. E che Milano possa essere la nuova casa dell’ Agi. Il sogno mai nascosto dell’impero Angelucci è infatti l’espansione in Lombardia, fallita fino a oggi grazie alla presenza salda delle principali concorrenti del gruppo, l’Istituto Maugeri su tutti. Contemporaneamente, però, è necessario puntellare quello che già c’è. Quando in Lazio si decise che l’ex commissario della Croce Rossa, Francesco Rocca, sarebbe stato il candidato del centrodestra a governare la Regione, a casa Angelucci tirarono fuori le bottiglie delle grandi occasioni. Un amico alla Pisana fa sempre bene. Così come, domani magari, potrebbe tornarne uno anche nella cara vecchia Puglia.

Il caso Lazio

È la fine degli anni ’50 quando l’allora adolescente Antonio Angelucci, con in tasca la sola licenza media e un’infanzia di fatiche nel paesino abruzzese di Sante Marie, arriva a Roma. «Sono 70 anni che lavoro» ha raccontato di sé a Report anni fa, in una delle sue pochissime interviste. «Mi ricordo mio padre che mi svegliava alle quattro della mattina per andare ai Mercati Generali. Avevo cinque anni». Angelucci sbarca dunque nella capitale nel momento migliore per uno che voleva, come lui, «mangiare il futuro»: il boom economico era vicino e, iniziando come commesso in una farmacia e trovando poi un posto come portantino al San Camillo, l’attuale deputato leghista e ras della sanità nazionale quelle opportunità le seppe cogliere al volo. «Lavorai come portantino per nove mesi, forse un anno» ha ricostruito sempre Angelucci con Report . «E non è vero, come qualcuno ha messo in giro, che la mia fortuna fu incontrare Cesare Geronzi, che era il capo di Banca di Roma, che finanziò le mie attività. E il presidente socialista dell’epoca, Santarelli, che convenzionò le mie strutture. Sono favole. Geronzi lo conosco in quanto correntista della banca. E Santarelli ha fatto il suo, non mi ha dato una mano, perché l’accreditamento che ha dato a me l’ha dato anche agli altri. Niente di eccezionale».

Nelle corsie ospedaliere si fa largo abbracciando le battaglie sindacali. Non aveva risorse, ma la capacità di capire che la sanità privata, grazie agli accreditamenti, è una gallina dalle uova d’oro. Riuscito a far partire una clinica a Velletri, il centro più a sud dei Castelli Romani, ha così costruito un impero. Mattone dopo mattone. Oggi nel Lazio il gruppo gestisce 17 delle 24 strutture italiane: l’Irccs in via della Pisana, il centro di riabilitazione, la Medica Group, il San Raffaele Portuense, Monte Mario, Termini, Flaminia e la casa di cura Villa Grazia. E ancora: Nepi, il San Raffaele a Viterbo, Cassino, Monte Compatri, Rocca di Papa, Trevignano, Sabaudia, Borbona e Velletri. Insomma: chi nel Lazio ha bisogno di cure prima o poi è destinato a varcare la soglia di un ospedale dell’onorevole. Ancor di più da dodici mesi a questa parte, da quando alla guida della Regione è arrivato il meloniano Francesco Rocca, che quando si è trattato di dare i primi 23 milioni di euro ai privati, sostenendo che servisse acquistare posti letto per decongestionare i pronto soccorso, la metà li ha diretti al gruppo dell’amico parlamentare.

L’impero Angelucci nasce da una vecchia casa di cura sulla via dei Laghi, la strada che da Velletri si inerpica verso Nemi. Proprio da quella clinica però, quando il deputato era già uno dei signori della sanità italiana, nel 2009 sono arrivati i primi guai per il gruppo San Raffaele. Travolta da un’inchiesta su un raggiro da 170 milioni di euro con i rimborsi ottenuti dal servizio sanitario regionale. Un colpo durissimo per la società, già alle prese con lo scandalo della sanitopoli abruzzese ai tempi di Ottaviano Del Turco. Il San Raffaele Velletri alla fine ha chiuso i battenti. Il processo è però finito dieci anni dopo con l’assoluzione di tutti gli imputati, partendo da Tonino e dal figlio Giampaolo. Tanto che ora il principale obiettivo di Angelucci è proprio quello di riuscire a riaprire la struttura, battaglia su cui si è già speso anche Matteo Salvini. A Velletri poi, oltre che durante la campagna elettorale, il leader della Lega si è recato anche per andare a cena nel gettonatissimo “Benito al bosco”, insieme alla compagna e a Tonino. Ma la clinica di Velletri è finita al centro anche di un secondo processo, scaturito da una denuncia dell’ex assessore regionale Alessio D’Amato che ha sostenuto di aver subito un tentativo di corruzione da parte dell’onorevole, che per ottenere i crediti vantati dal San Raffaele di Velletri gli avrebbe proposto una mazzetta da 250mila euro. Angelucci ha sempre negato: dopo un percorso processuale tortuoso siamo all’udienza preliminare.

Certo è che una strada Tonino la trova sempre. Nel pieno dell’emergenza Covid, nel 2020, il San Raffaele di Rocca di Papa si trasformò in un maxi cluster. Vennero registrati tra i pazienti 168 contagi e 43 decessi. Con i militari fuori dall’ospedale e, mentre i Nas indagavano e la Procura di Velletri apriva un’inchiesta, sempre D’Amato fece revocare l’accreditamento alla struttura. Ecco però chenel novembre 2022, alla fine della seconda legislatura Zingaretti, con un subemendamento bipartisan alla legge di stabilità regionale, presentato dal leghista Pino Cangemi, dal dem Fabio Refrigeri e dall’azzurro Giuseppe Simeone, venne aperta la strada per far tornare il centro nel servizio sanitario regionale, come ha poi fatto successivamente Rocca.

Tutto passa, come l’inchiesta del 2014 per associazione a delinquere finalizzata a reati tributari, quella per presunti abusi edilizi relativi a un pollaio per struzzi nella villa del deputato nel Parco dell’Appia Antica e la condanna di primo grado nel 2017 (un anno e quattro mesi di reclusione) per tentata truffa e falso sui finanziamenti pubblici ricevuti per i quotidianiLibero e Il Riformista. Tante inchiestema mai nessuna condanna definitiva.
Rocca, si diceva, è un vecchio amico di famiglia. È stato presidente del Cda della Fondazione San Raffaele, costituita dalla famiglia Angelucci e impegnata nella gestione del centro riabilitativo di Ceglie Messapica, e ha mantenuto quell’incarico fino al 14 novembre 2022, quando cioè l’attuale presidente della Regione ha deciso di scendere in campo. Da giocatore, insomma, si è trovato a diventare arbitro. Il governatore è stato inoltre presidente di Confapi sanità, nel cui consiglio c’era pure “Napoleone”. Appena insediato in Regione ha destinato 10,2 milioni di euro alle strutture di Angelucci. Nel dicembre scorso, dopo l’incendio dell’ospedale di Tivoli in cui hanno perso la vita tre pazienti e mentre ospedali come il Pertini scoppiavano non riuscendo a far fronte anche ai pazienti dell’ospedale tiburtino, ha stanziato altri 10,3 milioni, per acquistare altri posti letto dai privati, e 826mila euro sono andati al San Raffaele di Montecompatri. Infine un mese fa, per evitare il collasso del pronto soccorso del “Goretti” di Latina, sempre Rocca ha messo sul piatto quasi 8 milioni di euro per le strutture private accreditate e Angelucci è stato della partita anche in terra pontina, con un milione e mezzo di euro diretto alla Rsa San Raffaele di Sabaudia. Tonino nega di aver ricevuto favori dalla politica e minaccia querele.

Intanto gli affari vanno avanti a gonfie vele. E mentre attraversa Roma in Ferrari - a proposito: il prefetto di Viterbo aveva anche concesso all’autista di famiglia, “in via eccezionale e temporanea” la qualifica di “agente di pubblica sicurezza”, che consentiva loro di sfrecciare con il lampeggiante anche in città - con orgoglio guarda anche la statua di papa Giovanni Paolo II davanti alla stazione Termini: l’ha voluta e pagata lui.

Il caso Puglia

A Bari, invece, qualcuno era arrivato prima di lui: a regalare la statua di San Nicola, davanti alla Basilica, ci ha pensato vent’anni fa Vladimir Putin. Eppure Tonino Angelucci si sarebbe volentieri affidato al protettore di una città dove le cose non sono quasi mai andate come avrebbe voluto. Siamo negli anni 2000 quando il gruppo San Raffaele entra pesantemente nel mercato anche grazie a un bando che la regione, all’epoca guidata da Raffaele Fitto, “protesi” allora di Silvio Berlusconi e oggi potentissimo ministro del Pnrr nel governo di Giorgia Meloni, bandisce un appalto da 198 milioni di euro per la gestione di undici Residenze sanitarie assistite. Quasi contemporaneamente Giampaolo Angelucci, che cominciava a prendere le redini dell’azienda insieme con il padre, decideva il finanziamento per 500mila euro de “La Puglia prima di tutto”, il movimento politico personale che Fitto aveva creato per lanciare la sua ricandidatura. Per la procura di Bari - e due giovani pm, Roberto Rossi e Renato Nitti - quella era una corruzione, o per lo meno un finanziamento illecito. Per questo arrestarono Angelucci e chiesero (senza ottenerla) anche l’autorizzazione per Fitto. Che, nel frattempo, dopo aver perso contro ogni previsione le elezioni regionali che portarono Nichi Vendola sulla poltrona di governatore, era diventato deputato. Il processo – dopo una condanna in primo grado – si è trascinato per anni ed è finito con assoluzioni piene e prescrizioni (c’è ancora qualche strascico civile). Certamente, quel finanziamento non è stato considerato una corruzione. Ma sicuramente non ha aiutato gli affari del gruppo, che negli anni successivi non hanno brillato.

Ora quegli interessi si trovano di fronte a un importante bivio. Dopo venti anni di governo in Regione del centrosinistra – Vendola prima, Emiliano poi – c’è infatti la possibilità che il centrodestra torni a governare una Regione che, quasi per caso, si è trovata a diventare una roccaforte rossa. La disinvoltura politica, e le indagini giudiziarie, sembrano aver infatti intaccato il consenso della “primavera pugliese”. Dando la concreta possibilità al centrodestra di riprendersi la Regione. A mettersi nel mezzo c’è però il sindaco di Bari e presidente dell’Anci, Antonio Decaro. Che, in scadenza dopo due mandati, correrà ora con il Partito democratico alle elezioni europee per poi, era naturale immaginare, concorrere per la presidenza della Regione. Non sarà semplice. Come è noto, il Viminale ha insediato la commissione per valutare lo scioglimento del Comune. Non solo: interessante è quanto sta accadendo nella commissione Antimafia, a guida della meloniana Chiara Colosimo. Sul caso Bari è stato aperto un fascicolo. E grande attenzione e tensione c’è su una dichiarazione di un pentito che riguarda proprio Decaro: aveva raccontato di averlo incontrato prima di una campagna elettorale. La Procura per questo aveva indagato il sindaco per poi chiederne l’archiviazione, non trovando riscontri a quelle parole. La commissione ha chiesto copia di quel documento, e ha cominciato a fare domande sul punto a diversi auditi, come se dietro ci fosse qualcosa di strano. Hanno convocato Decaro. E, soprattutto, il capo della Procura di Bari che gli arresti e quell’archiviazione ha voluto: «Non faremo sconti» diceva ancora qualche giorno fa un deputato di maggioranza. «Hanno cominciato provando a macchiare i politici e ora proveranno con magistrati », racconta ancora un’altra fonte della Commissione che conosce un particolare eloquente: nelle scorse settimane, mentre sulle prime pagine di tutti i giornali c’era il “caso Bari”, alcuni cronisti giravano per le strade della città alla ricerca, senza fortuna, di una fotografia di qualche evento privato con il sindaco e il procuratore. Il procuratore di Bari si chiama Roberto Rossi. Ed è il pubblico ministero che venti anni fa arrestò a Bari un Angelucci.

sabato 27 aprile 2024

Pienamente d'accordo

 

Il 25 aprile si parli di Matteotti: lì i Palestinesi non ci azzeccano
DI MARCO LILLO
Quando Luigi de Magistris in tv su Re-Start a Rai3 tira fuori la Nakba (l’esodo forzato dei palestinesi nel 1948) e Aldo Cazzullo parla del Gran Mufti di Gerusalemme Amin al-Husseini (alleato di Hitler nel 1943) si capisce che hanno vinto loro. Il talk è la prova che la questione israelo-palestinese ha oscurato il fascismo e l’antifascismo. Il centenario di Matteotti e il discorso censurato di Scurati sono in secondo piano.
In piazza a Roma c’erano da un lato giovani di sinistra che cantavano “Ve ne annate o no” all’indirizzo non dei fascisti ma dei ‘sionisti’ della ‘Brigata ebraica’. Dall’altra, gli ebrei romani, alcuni con atteggiamenti da ultras, li invitavano ad avvicinarsi: “Viè quaaaaa!’ Ve fate difende da quelli che avete menato, M..deee!”. In tv un’inviata della Rai a Re-Start osava parlare di “carica della Brigata ebraica” (effettivamente un eccesso verbale) e in diretta l’ex presidente della Comunità ebraica romana Riccardo Pacifici, con il tono del capo, la bacchettava. La conduttrice Annalisa Bruchi gli dava ragione e concedeva un collegamento riparatore. Così Pacifici spiegava perché il popolo palestinese, “se vogliamo così definirlo”, non avrebbe legittimazione a stare in piazza il 25 aprile per via della storia del Gran Muftì filonazista, già trattata da Aldo Cazzullo in trasmissione nemmeno fosse il tema centrale della Liberazione. A questo punto De Magistris, giustamente, interveniva per difendere il diritto dei palestinesi a essere un popolo ricordando la Nakba.
Benvenuti alla Festa della Liberazione a Roma. Si è visto di tutto. Sono state lanciate da mani ignote quattro bombe carta contro i filo-palestinesi, una delle quali è caduta dentro lo zaino di un ragazzo che non si è ustionato perché ha avuto la prontezza di gettarlo in terra. E un seguace della Brigata è arrivato ad augurare lo stupro alle donne con la kefiah come alle vittime del 7 ottobre.
La questione israelo-palestinese è un tema importante, intendiamoci. Il punto è che non c’entra nulla con la nostra Liberazione. Parliamone tutto l’anno, ovunque, difendendo i diritti umani e la pace. Non a Porta San Paolo il 25 aprile. Qui sono opportuni cartelli che ricordino Giacomo Matteotti nel centenario della morte non gli slogan antisionisti o le foto del Gran Mufti con Hitler. Chi porta in piazza la bandiera ucraina, israeliana o palestinese può farlo come un ospite rispettoso del “padrone di casa” che è l’antifascismo. Anche perché quelle bandiere, ieri o oggi, hanno mostrato talvolta di non avere tutte le carte in regola per sfilare accanto ai partigiani. Michele Serra a Milano deve aver visto una scena simile. Su Repubblica ha scritto: “Il 25 aprile è di quella grossa fetta di milanesi che vogliono festeggiare la sconfitta del nazifascismo e la nascita della democrazia italiana (…) solo che quando i centomila sono arrivati in piazza, nella loro piazza, hanno dovuto sistemarsi tutto attorno all’insediamento precedente, gremito di bandiere palestinesi e, non si capisce perché, del tutto avulso dal contesto che lo circondava”.
In tv come in piazza la storia è stata usata come un manganello per escludere i rivali.
Sul punto però è bene chiarirsi: i componenti della Brigata ebraica, se fossero vivi, avrebbero più titolo storico dei palestinesi a stare in piazza. Perché 5 mila volontari hanno combattuto il nazifascismo e 51 sono morti sul fronte italiano. Ci sono stati volontari palestinesi islamici che hanno combattuto anche con gli inglesi però è indubbio che il Gran Mufti di Gerusalemme stava con i nazisti. Tutto ciò però non autorizza a fare insultare le filo-palestinesi del 2024. Gli ebrei romani hanno tutto il diritto a stare in piazza il 25 aprile in rappresentanza dei loro avi morti sulla linea gotica. Non possono pretendere di sfilare in difesa di uno Stato che ha ucciso, dopo il pogrom infame del 7 ottobre, migliaia di bambini. Se non altro perché nessuno sa cosa ne direbbero oggi gli ebrei partigiani.

A bocce ferme

 

La non censura
di Marco Travaglio
Ho parlato più volte di “censura” a proposito della mancata partecipazione di Antonio Scurati sabato 20 a Chesarà… (Rai3). Mi ero basato sull’unica versione disponibile: quella di Serena Bortone, di cui non avevo motivo di dubitare. Tantopiù che la Rai, dinanzi a un’accusa così grave, balbettava e si contraddiceva, mentre la Meloni e il suo gruppo di fuoco sparavano alzo zero su Scurati accusandolo volgarmente di “volere i soldi” e rivendicando di fatto la censura. Ora però, con tutte le carte in tavola, si può serenamente affermare che non è stata censura, ma il solito mix di servilismo e stupidità dei meloniani. Ecco i fatti.
Ai primi d’aprile la Bortone invita Scurati per il 20, in vista della Liberazione. Il programma offre 1.000 euro, l’agente di Scurati ne chiede 1.800. Il 15 l’accordo viene chiuso a 1.500 e l’Ufficio Contratti Rai lo autorizza. Il 19, alla vigilia, Scurati invia il monologo alla redazione che, senza che nessuno l’abbia chiesto, lo gira alla Direzione Approfondimenti di Paolo Corsini (FdI) e del suo vice Giovanni Alibrandi. Questi saltano sulle sedie: Scurati non sarà ospite per tutto il talk, ma leggerà un monologo di un paio di minuti che in sostanza dà della fascista alla premier. Chi la sente, Giorgia (peraltro ignara di tutto)? Ideona: Scurati leggerà il monologo, ma gratis, tanto parlerà poco e potrebbe essere in promozione per un libro di fumetti e una serie Sky tratti da una sua opera. Il contratto a titolo oneroso viene annullato per “motivi editoriali” in attesa della risposta. Che arriva alle 17.42: la produzione di Chesarà… manda via mail ad Alibrandi la lista degli ospiti. Accanto a Scurati c’è la sigla TG, titolo gratuito. I dirigenti ne deducono che Scurati ha accettato di partecipare gratis e danno l’ok al comunicato stampa che alle 19.09 annuncia gli ospiti dell’indomani, incluso Scurati sul 25 Aprile. Ma allo scrittore la Bortone&C. non han chiesto se sia d’accordo. Infatti in serata la Bortone cerca i dirigenti per segnalare il casino. Quelli non rispondono subito: per loro fa fede il TG della mail e rinviano la grana al mattino dopo. Ma sabato 20 alle 8.30 si trovano un post a dir poco omissivo della Bortone su Instagram: “Ho appreso ieri sera, con sgomento, e per puro caso, che il contratto di Scurati era stato annullato. Non sono riuscita a ottenere spiegazioni plausibili”. Parte la rumba: censura, regime, fascismo. Ma Scurati ha ancora i biglietti del treno da e per Milano e l’hotel romano prenotati dalla Rai e autorizzati il venerdì mattina da Alibrandi, che li annullerà solo alle ore 13. Lo scrittore comprensibilmente decide di non partire. Ma i dirigenti Rai non hanno mai detto che non dovesse leggere il suo monologo. Sono così fessi da sembrare censori anche le rare volte in cui non lo sono.

L'Amaca

 

La fionda di Geppi
DI MICHELE SERRA
La parodia di Geppi Cucciari del goffo “manel” di Bruno Vespa sull’aborto (sette maschi che prendono posizione sulla più femminile delle questioni) è un piccolo capolavoro: sette donne che discutono del rapporto tra cilindrata delle automobili e impotenza sessuale maschile. Molto ridere, molto riflettere, la satira non è l’arma finale, perché l’arma finale, quella che distruggerà il mondo, è il fanatismo, che è una specie di sezione aurea dell’imbecillità. Però la satira è conforto, rifugio dei sensibili, bunker di sopravvivenza, riscatto dell’intelligenza, e quando il colpo è bene assestato, e contro il bersaglio giusto, ci si sente meno soli al mondo.
Brava Geppi, bravo Luca Bottura e gli altri autori, che bello poter fare smaccata pubblicità a liberi artisti e soprattutto a un programma di Raitre, Splendida cornice. Povera Rai, amata Rai nelle mani dei Proci, chissà quando torna Ulisse a spiegare come ci si comporta. E al netto di tutto questo: dimentichiamo troppo spesso quanto è importante prenderli per i fondelli, i nuovi padroni (non è il caso di Vespa, che è il meno nuovo tra gli italiani). Quanto è importante fare valere la misura contro la dismisura, di fronte al ruggito sorridere e di fronte al sopruso cambiare registro, cambiare linguaggio, scartare di lato.
Mettete a confronto una tirata moralista e una parodia ben riuscita, l’efficacia è imparagonabile. Tutti dispongono di retorica e di moralismo, bisogna dunque affinare l’arma dell’umorismo, più rara, non tutti gli arsenali ne dispongono. È la cerbottana, la fionda, il trabocchetto coperto di foglie. Più il potere parla di atomiche, più la scena pubblica è dominata da urlatori e fanatici, più si deve essere grati ai portatori di fionda.

Saggio di un Saggio

 

L’INTERVENTO
L’opportunismo degli intolleranti Perché il fascismo non è d’altri tempi
Le scappatoie di chi non vuole smarcarsi da quel regime che rimane attuale E che si rinnova con il Tribalismo

DI GUSTAVO ZAGREBELSKY

Insistere per avere una chiara dichiarazione antifascista da chi ha avuto cento occasioni per farla e non l’ha fatta è utile? Fascismo e antifascismo non sono due sfumature politiche: sono visioni che dividono la concezione del mondo in due ( dueWeltanschauungen , nel lessico fascista tedesco). L’una contraddice l’altra nell’essenziale, e non c’è spazio per una terza. È una autentica dicotomia: ciò che sta in una parte non può stare nell’altra. Non si può essere in entrambe per convinzione, ma solo per opportunismo. Ma non si può neanche stare in nessuna delle due, se non per ignavia, ignoranza, passività, indifferenza. L’opportunismo è una colpa grave, ma ancor più grave è l’ignavia. Superfluo citare l’anti-inferno dantesco.
Poiché non osiamo neppure pensare che i governanti che non si pronunciano siano degli ignavi, resta l’opportunismo: il fascismo è cosa d’altri tempi; i problemi degli italiani sono diversi; antifascista a modo proprio; fascismo e antifascismo sono fatti miei; il fascismo ha fatto cose brutte ma anche belle; la resistenza, e non solo il fascismo, si è macchiata di crimini. Tante scappatoie, la più ignobile delle quali, di fronte a un conflitto storico che non solo ha generato grandi contrasti ideali ma ha provocato immani sofferenze con milioni di morti, è un gioco di parole: a-fascismo e a-antifascismo. Non c’è modo per costringere gli svincolanti che da ultimo hanno inventato la furba e, al tempo stesso, sciocca domanda retorica: tu che mi chiedi, tu sei anticomunista?
Allora, si continui a pungolare, ma non ci si aspetti altro che vuote parole. È già chiaro: quando l’alternativa è netta – o di qua o di là e non stai con chiarezza da una parte, ciò significa che stai dall’altra, anche se non vuoi o non puoi dirlo. Tutti hanno capito, dunque basta.

Del resto, in politica quanto contano le parole? Volano e si posano a piacere dove si vuole. Si dice, ci si contraddice, si mente, ci si smentisce, ci si dimentica: tutto per piacere o non dispiacere al proprio pubblico che della coerenza, per lo più, non sa che farsene. Che cosa costerebbe una facile dichiarazione: sì, in passato sono stato o stata pro-, ma ora sono anti-fascista? Il coro che incalza per avere “la dichiarazione” sarebbe in un momento ridotto al silenzio. Forse scontenterebbe i fedelissimi alla “Idea”, ma basterebbe una strizzatina d’occhio per intendersi e tenerli tranquilli. In fondo, penserebbero che “Parigi val bene una messa”. Sarebbe, però, comunque, un cedimento d’immagine incompatibile con l’onore che, da quelle parti, è intensamente coltivato. Perciò, merita rispetto chi non si smentisce ma, non smentendosi, conferma. D’altra parte, per gli antifascisti, che cosa conterebbero parole pronunciate con riserve mentali? Contano i fatti e gli atti concreti, cioè i frutti da cui si riconosce la pianta.

L’argomento più ricorrente per evitare lo scoglio, tuttavia, è questo: il fascismo è cosa d’altri tempi, non c’è più, né più ci sarà. Chi s’immagina i figli della lupa, i gerarchi in orbace, la violenza squadrista e tutto l’armamentario al tempo stesso folcloristico e violento di quel tempo tragico? Il fascismo voleva essere una rivoluzione anti-borghese, ma oggi siamo o vogliamo tutti essere borghesi. Il fascismo fu la risposta al vento del bolscevismo russo, ma dove sono oggi i bolscevi chi. Se dunque il fascismo non esiste più, che senso ha dividersi tra chi è pro e chi è contro? Sono cose d’altri tempi. I problemi degli italiani sono altri. Davvero?
Fascismo e antifascismo sono la versione moderna d’un conflitto profondo e perenne che modella la vita degli individui nei rapporti sociali, le concezioni e le forme della politica e perfino i rapporti tra gli Stati. Il fascismo che abbiamo conosciuto e conosciamo è solo una manifestazione storica di un unico concetto politico che ha assunto diverse forme concrete, adeguate alle variabili circostanze in cui si è affermato. Per esempio, la dittatura fascista non è riuscita a raggiungere il totalitarismo nazista. Lo stesso si può dire del falangismo franchista o dell’estado novo portoghese.

Ma, al di là delle circostanze, c’è qualcosa di comune, di profondoe radicato nell’animo umano e nelle pulsioni sociali che spiega la naturale convergenza di tali regimi, al di là delle specificità. Questo nucleo comune emerge e riemerge di tempo in tempo. Come possiamo definire con una parola il “fascismo perenne”, l’ Urfaschismus (il prefisso ur indica qualcosa di originario, di primordiale)? Nel 1945, con sullo sfondo le tragedie europee tra le due guerre, è stata introdotta la parola “tribalismo” che dà anch’essa, tuttavia, un’idea di qualcosa di arcaico, di appartenente a tempi addirittura preistorici. “La cosa”, al di là della parola, invece, è attuale, sempre. Ne vediamo i contenuti, non necessariamente tutti insieme e non sempre tra loro coerenti: nazionalismo e purismo etico ed etnico; rifiuto della modernità e dei diritti universali; restaurazione dei valori tradizionali; irrazionalismo e avanguardismo; primato dell’azione, anche violenta, sulla riflessione e sulla discussione; anti- intellettualismo; accentramento del potere, decisionismo e antiparlamentarismo; occupazione e normalizzazione delle istituzioni; disprezzo della cultura e culto della forza; “machismo” e antifemminismo; intolleranza alle critiche; ostilità nei confronti della libertà di pensiero, scienza, arte e stampa; esaltazione dell’uomo normale; risentimenti e aspirazioni mediocri; senso comune; concezione del popolo come massa organica indifferenziata; corporativismo; intolleranza verso i “diversi”, “non integrabili”; xenofobia e razzismo conclamati o dissimulati; unanimismo; complesso del complotto; nazionalismo ripiegato su se stesso contro internazionalismo, universalismo e cosmopolitismo; superiorità o unicità nazionale; vittimismo aggressivo.

Forse non si è riflettuto a sufficienza sul significato della triade Dio, Patria, Famiglia: parole d’ordine del fascismo, recentemente riportate in vita e pronunciate con la naturalezza dell’ovvio. Innanzitutto, la triade traccia un tragitto dall’alto in basso, un flusso autoritario. Eleggere un dio a protezione della propria parte politica, è invocare la fonte suprema della legittimità del potere: non il consenso, non la libera discussione, non la democrazia. La “secolarizzazione”, cioè la fondazione laica della vita sociale e politica, diventa una deviazione del corso di una storia da correggere. La Patria, poi, è usata come pretesa dei governanti di parlare, agire e decidere nel nome di tutti, ed è un efficace argomento per dividere i buoni cittadini - i patrioti - dai cattivi, i dissidenti. Ed è anche la via per gonfiarsi ridicolmente agli occhi altrui invocando la nostra storia eccezionale, la nostra cultura e il nostro paesaggio inuguagliabili, la creatività delle nostre imprese, fino al made in Italy culinario. Infine, la Famiglia di cui parlano è, ovviamente, quella tradizionale che assorbe le singole persone nelle loro funzioni organiche, ciò che soprattutto tocca la donna procreatrice.
Tutti questi ingredienti sono sostanza del fascismo del nostro tempo e di sempre: la società come blocco unico. Il tribalismo, cui sopra s’è fatto cenno, significa precisamente questo. Il fascismo storico, dichiaratamente già nel suo simbolo, il fascio dei littori romani, esprimeva questa idea della vita “in blocco” garantita dalla scure del potere. L’antifascismo operoso non è tanto contro le esteriorità del fascismo, quanto nella reazione alla plumbea concezione della vita che esso perennemente propone. È nella ugualmente perenne rivendicazione e nell’esercizio pratico delle libertà in tutte le pieghe delle relazioni umane, al fine di “sbloccarle”.
In fondo, antifascismo e democrazia coincidono e questa coincidenza ha la sua tavola fondativa nella Costituzione. È un caso che chi non vuole dichiararsi antifascista sia lo stesso che, la Costituzione, vuole cambiarla?