giovedì 28 marzo 2024

L'Amaca

 

Un giudice non basta
DI MICHELE SERRA
Il caso Acerbi è la prova (ennesima) che non è possibile, né lecito, affidare a una sentenza il compito di sollevarci dal nostro giudizio etico, culturale, politico. La giustizia ha un limite “tecnico” evidente e necessario: non può condannare senza prove. La selva di telecamere schierate attorno alle partite di calcio non è stata in grado di documentare l’insulto razzista. Per questo il giudice sportivo non ha voluto/potuto condannare il difensore dell’Inter. Questo non vuol dire che Acerbi non abbia insultato Juan Jesus (è molto possibile, anzi, che lo abbia fatto: non si spiegherebbe, se no, come mai Juan Jesus si sia offeso); né che il calcio (più sugli spalti che in campo, non dimentichiamolo) non sia razzista. Vuol dire, semplicemente, che non tutte le questioni, le ingiustizie, le offese che gravano su una collettività possono essere risolte a colpi di sentenza. Nessun giudice, sportivo e non, può sentirsi investito di una “missione morale” che influenzi le sue decisioni. Il giudice sportivo in questione, per sua fortuna, non aveva il compito di combattere il razzismo; aveva il compito di stabilire se in quello specifico caso fosse provato un comportamento razzista, e ha ritenuto di non averne le prove. I comportamenti sbagliati, discriminatori, persecutori, si combattono adottando, nella vita quotidiana, comportamenti opposti. Dunque con la cultura, con la politica, con la battaglia delle idee. Non ci sono scorciatoie. I fallimentari precedenti di “giustizialismo” (ovvero: l’illusione di poter sostituire alla politica le carte bollate) dovrebbero avercelo insegnato. Del caso Acerbi, non essendo giudici, sappiamo comunque abbastanza per farcene un’opinione e inquadrarlo nel mondo del calcio, non solo italiano, così com’è. E un’opinione non è una sentenza.

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