Da teleMeloni ci difende Renzi (che faceva peggio)
DI DANIELA RANIERI
Da quando si è ritirato dalla politica da uomo di parola qual è, otto anni orsono, Matteo Renzi possiede la necessaria equanimità per intervenire nel dibattito pubblico con rigore e imparzialità. Perciò i giornali continuano a intervistarlo, nonostante lui ne diriga uno tutto suo, per così dire, su cui firma editoriali al vetriolo. Ultimamente, per esempio, sta picchiando duro contro l’occupazione illiberale della Rai a opera della famiglia Meloni nonché contro Giuseppe Conte, “uomo senza dignità” che “continua a fare la stampella alla Meloni anche sul servizio pubblico” (invece lui, che una dignità ce l’ha, le farà da stampella solo sul premierato e sulla “giustizia”, per metterle i bastoni tra le ruote).
In merito alla Rai, quando c’era lui era tutt’altra musica. Nel 2016, prima del voto al referendum con cui 20 milioni di italiani avrebbero respinto la Costituzione fiorentina, i suoi impiegati minacciarono di deferire il Fatto presentando un esposto all’Agcom per violazione della par condicio: secondo i bulli da osteria-costituzionalisti del comitato “Basta un Sì” (che poi, s’è visto, non bastava), il No era sovra-rappresentato in Rai. “Porrò il problema in Commissione vigilanza”, minacciava il renziano Anzaldi, “per capire se c’è una violazione della legge e se Travaglio ha finito il suo tempo a disposizione”. Intanto il presidente del Consiglio, al grido di “Fuori i partiti dalla Rai!”, occupava il 100% della Rai con la nomina a direttore generale e ad di Campo dall’Orto, la presa manu militari di Tg1 e Tg2, la destituzione di Bianca Berlinguer dal Tg3, la cacciata di Giannini, Porro, Gabanelli e una bonifica delle paludi di Viale Mazzini mai vista prima. Ogni giorno, sui giornali padronali di cui era una specie di editore-ombra, imbandiva un buffet di panzane, fandonie, pinzillacchere e menzogne, bullizzava Report e Presadiretta, insultava l’“accozzaglia” composta da chi gli si opponeva e millantava le stesse cure per il cancro in tutte le regioni in caso di vittoria del Sì.
A buon diritto oggi, in una ricca intervista a La Stampa, inveisce contro l’orbaniana Meloni, biasimata anche perché è “una presidente del Consiglio in perenne lotta col mondo” (al contrario di lui, la risposta di Rignano sull’Arno al Dalai Lama) e perché “invece di fare passerelle con Elon Musk ad Atreju non gli chiede di portare in Italia uno stabilimento della Tesla”. Se ricordiamo bene dai visionari reportage sulla stampa amica, nel 2017 Renzi andò da Elon Musk in Silicon Valley, “Far West vero”, come scrisse Rampini su Repubblica, fugando il dubbio che Renzi se ne fosse fatto costruire uno finto nei pressi di Fiesole. Il pioniere-cowboy diramava via newsletter: “Investire sulla ricerca, non aver paura del futuro e della scienza!”: intanto la sua legge di Stabilità aveva tagliato 42 milioni di fondi agli enti di ricerca. Indi l’incontro col “vulcanico fondatore di Tesla”, con cui parlò di intelligenza artificiale e viaggi su Marte (chissà in che lingua); La Stampa gli dedicò la prima pagina: “Renzi in Usa: cerco idee anti-populisti”, tipo Duce che visita gli stabilimenti di Terni. Si ignora se propose a Musk di portare Tesla in Italia; rimediò però un contratto con l’Università di Stanford per insegnare nella filiale fiorentina non si sa che materia (forse come si fanno le riforme costituzionali).
Renzi redarguisce Meloni anche perché parla di “imprenditori amici” e “oligarchi” e le ricorda che lei era ministro nel governo che “chiuse una convenzione a dir poco discutibile coi Benetton”. Non come lui, che insieme all’amico Carrai i Benetton cercava di piazzarli all’emiro del Qatar (mentre Conte cercava di revocargli le concessioni, tu guarda il caso).
Ciò che fa infuriare di più Renzi, però, è l’attacco sferrato da Meloni contro il titolo sulle privatizzazioni del governo fatto da Repubblica, il cui editore Elkann, secondo Meloni, svende Stellantis: “Attaccare un editore perché non piacciono i titoli di un quotidiano significa mettere in discussione la libertà di stampa”. Lo vedete che è uno statista? Per questo alla Leopolda 2015 lanciò il contest “Vota il peggior titolo di giornale” tra quelli che lo criticavano: vincemmo noi, soprannominati “il Falso Quotidiano” tra gli applausi dei suoi sottoposti fantozziani. In seguito, a capo di un partito-canaglia col 2%, inventò una nuova forma di auto-finanziamento, oltre allo stipendio da senatore e a quello di maggiordomo del regime saudita: le querele ai giornalisti, “usando i tribunali come bancomat”, come ebbe a spiegargli una giudice di Firenze.
Insomma, a difenderci dal fascismo c’è un (ex?) politico della cui integrità non si può dubitare, uno che appoggiando editori amici conserva il privilegio di rilasciare interviste quotidiane sulla libertà e l’autonomia del giornalismo continuando a prendere soldi da uno che i giornalisti li fa direttamente a pezzi con la sega circolare.
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