Il cardinale spodestato e quel palazzo di Londra Per il sacco del Vaticano è il giorno del giudizio
DI IACOPO SCARAMUZZI
CITTà DEL VATICANO — È stato un processo, ma non solo: quello che dopo due anni e mezzo si conclude oggi in Vaticano è stato anche lo stress test per un piccolo Stato che ancora sta imparando a dosare l’invocazione della misericordia e la repressione della corruzione, la fine del potere temporale e le esigenze della statualità; è stata l’epifania dei conflitti innescati dalla riforma delle finanze voluta da papa Francesco; ed è stato il palcoscenico di uno spettacolo di incompetenze e opacità che rimane agli atti, a prescindere dalla sentenza, come monito su come la Chiesa non dovrebbe gestire i soldi.
Il palazzo e la truffa
Al centro del processo c’è il palazzo di Sloane avenue 60, nell’esclusivo quartiere Chelsea di Londra, un ex magazzino di Harrods che la Segreteria di Stato decide di acquistare nel 2014, a titolo di investimento, attraverso la partecipazione a un fondo del finanziere Raffaele Mincione. Gli affari sono meno vantaggiosi del previsto e la Santa Sede si affida al broker Gianluigi Torzi, che — proditoriamente? — mantiene il controllo del palazzo grazie a un pacchetto di 1000 azioni che cederà a carissimo prezzo. Nel giro di qualche anno l’impresa costa alla Santa Sede 350 milioni di dollari e, tra commissioni, mutui, mancati guadagni, nonché una svalutazione da Brexit, provoca perdite, secondo l’accusa, per 217 milioni. Buco pari a un terzo dei fondi della Segreteria di Stato. Al danno economico si aggiunge quello della reputazione, perché in quella cassa confluisce anche l’obolo di San Pietro, le elemosine che ogni anno i fedeli di tutto il mondo mandano al Papa. Tanto che nel 2022 il palazzo viene rivenduto per 186 milioni di sterline (233 milioni di dollari): per alcuni un errore, la perdita si sarebbe ammortizzata nel corso del tempo, ma tenerlo avrebbe ormai costituito un danno d’immagine insostenibile. Pochi dubitano che ci sia stata una truffa, ma chi ne ha beneficiato? Il Vaticano è stato vittima o complice?
Un processo straordinario
A luglio 2021 si apre un processo straordinario: è la prima volta che «la pentola viene scoperchiata da dentro» (copyright Bergoglio). A innescare le indagini, infatti, è stato l’Istituto per le Opere di Religione. Quando il nuovo Sostituto, monsignor Edgar Pena Parra, cerca di disinnescare la grana ereditata (“Una Via Crucis”), lo Ior — in particolare il direttore generale, Gianfranco Mammì, molto ascoltato dal Papa — prima acconsente a un prestito per rilevare il cento per cento dell’immobile, poi lo nega. E, nonostante le rassicurazioni dell’authority finanziaria, denuncia l’affare all’ufficio del revisore (la “Corte dei conti”) e alla magistratura vaticani. Francesco, eletto anche per fare pulizia, dice agli inquirenti di non guardare in faccia nessuno.
Gli imputati non sono mai stati tanti (dieci, tra uomini del Vaticano e finanzieri, e quattro società) e non è mai avvenuto che tra di loro ci fosse un cardinale: Giovanni Angelo Becciu, Sostituto agli affari generali — l’uomo-macchina della Segreteria di Stato — all’epoca in cui l’investimento fu deciso. Indagato (nonché sospeso, in attesa di giudizio, nei diritti legati alla dignità cardinalizia) perché Francesco ha modificato le norme che escludevano che un principe della Chiesa venisse giudicato da un giudice ordinario. Quando solo pochi anni fa il tribunale indagò sulla ristrutturazione dell’attico del cardinal Bertone, il porporato non fu neppure sentito come testimone, oggi l’accusa chiede per Becciu 7 anni e 3 mesi di reclusione.
Un’accusa che zoppica
Il maxi-processo ha mostrato però falle fin da subito impugnate dalle difese. In uno Stato nel quale i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario sono in capo al Papa, gli avvocati hanno contestato il fatto che Francesco sia disinvoltamente intervenuto, a indagini già avviate, per ampliare le intercettazioni. Inoltre, l’impianto accusatorio del promotore di giustizia Alessandro Diddi ha zoppicato. Un uomo che ha avuto un ruolo centrale nell’investimento, monsignor Alberto Perlasca, non indagato, è stato il testimone-chiave. Il memoriale che egli ha consegnato agli inquirenti è risultato essere sollecitato da due donne, Genoveffa Ciferri e Francesca Immacolata Chaouqui — quest’ultima protagonista del secondo Vatileaks — estranee al processo.
Sarà ora Giuseppe Pignatone a decidere se Becciu sia stato vittima di un «teorema», come sostengono i suoi legali, o invece abbia «fatto entrare i mercanti nel tempio», come ha detto Paola Severino, avvocato di parte civile della Segreteria di Stato. Se, dopo 85 udienze, c’è prova di reato o tutto si riduce a “mala gestio”.
Le garanzie di Pignatone
In quasi due anni e mezzo di dibattimento — sette mesi solo per le eccezioni preliminari, 69 testimoni ascoltati, 11350 pagine di trascrizione — Pignatone ha garantito tutti, senza comprimere tempi né diritti. Lungi dallo schierarsi con il promotore di giustizia — col quale ha già duellato nel tribunale italiano, a parti invertite, per il processo su “mafia capitale” quando Pignatone era procuratore e Diddi avvocato di Salvatore Buzzi — lo ha anzi punzecchiato con humor, ed ha spesso infilato, nel corso degli interrogatori, le domande cruciali agli imputati e ai testimoni.
Certo è che il buco di bilancio è ingente; che è il Sostituto, non il Segretario di Stato o il Papa, l’uomo-chiave delle decisioni di investimento; e che nella trattativa la Segreteria di Stato non si è affidata a un avvocato competente né ha fatto una adeguata “due diligence”. Problemi emersi sullo sfondo della riforma delle finanze, avviata da Benedetto XVI e accelerata da Francesco, che ha visto più volte, in questi anni, le diverse anime del Vaticano combatteretra di loro una battaglia di cui si è udita eco nell’aula del processo.
Nel corso delle indagini, poi, è emerso che nel cercare di fare pressioni sul Papa affinché lo difendesse, il cardinale Becciu è arrivato a registrare una telefonata privata all’insaputa di Francesco. È altresì venuto fuori — due filoni d’indagine distinti — che per realizzare un forno sociale il cardinale ha inviato 125mila euro della Segreteria di Stato ad una cooperativa della sua diocesi, Ozieri in Sardegna, che era presieduta dal fratello (le diocesi nel mondo sono quasi cinquemila); e che ha pagato profumatamente una signora sarda, Cecilia Marogna, amica di famiglia dei Becciu, incaricata, su mandato del Papa, di attivarsi, grazie a presunte competenze di intelligence, per liberare una suora che era stata rapita in Mali.
Riforme e conflitti
Il processo ha squadernato un ambiente di opacità, incompetenze, decisioni arbitrarie, mancanza di rendicontazione e controlli, ragnatele di rapporti personali che hanno preso il sopravvento su quelli istituzionali. E che hanno già convinto Francescoa prendere provvedimentidraconiani.
Il Papa ha già spostato i fondi della Segreteria di Stato sotto l’Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica (Apsa); ha così posto fine ad un’autonomia di cassa creata da papa Paolo VI — che poco si fidava dello Ior del famigerato monsignor Marcinkus — e fortemente contestata, negli ultimi anni, dal cardinale George Pell, il primo, impetuoso ministro delle finanze di Bergoglio, nonché dallo Ior e dalla stessa Apsa. Il Papa ha poi promulgato sia un codice appalti teso a «combattere le frodi, il clientelismo e la corruzione », sia linee guida per gli investimenti, che ora vengono vagliati attentamente della Segreteria per l’Economia. Decisioni politiche prese su misura per evitare che si verifichi di nuovo un affare come quella del palazzo di Sloane avenue: quale che sia la sentenza del processo.
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