Una storia
italiana
Gli azzurri vincono la Coppa Davis 47 anni dopo il primo trionfo in Cile
DI GABRIELE ROMAGNOLI
Una cosa mai vista prima. Se non da chi c’era. E non c’era la diretta televisiva 47 anni fa a Santiago del Cile, perché “non si giocavano volée col boia Pinochet” e fu deciso che ci si notava di più andando e non facendosi vedere. Per i più anziani è stata una leggenda, per i più giovani una docu- serie. E forse quei 5, con quei ritmi e quel montaggio, degli attori. Questa volta invece c’erano due canali, milioni di telespettatori ipnotizzati da giorni, da Torino a Malaga, in un crescendo tecnico-orgiastico come accade quando quel fantasma chiamato “nazione”, evocato in sedute spiritiche da vecchi colonnelli e nuovi ministri, si manifesta in una competizione sportiva. Dal Moro di Venezia al Rosso di Bolzano. Alle 20 e 26 di una domenica di novembre l’Italia rivince la Coppa Davis. E adesso, come si rimedia a tutti quei campi da tennis convertiti (straordinaria offerta 2x1) in gabbie da padel, perché possiate giocare tutti, possiate essere più social e non morire anche quando la palla vi avrà superato? Adesso che torna il mito dell’eccellenza, della squadra e dell’uomo solo al comando che se la porta sulle spalle fin dove nessuno (tranne lui) aveva immaginato?
Alle 20 e 50, prima che l’inno di Mameli preceda la consegna dell’insalatiera, parte Ma il cielo è sempre più blu di Rino Gaetano. Unoche aveva infilato Panatta nella sfilza dei nuntereggae più ,ma aveva anche dedicato una canzone al figlio del guardiano del circolo (il giovane Adriano) che “trasportando tutta la terra rossa lavora sognando che un giorno lui potrà battere la palla su quella terra rossa”. È la colonna sonora perfetta per l’educata allegria del gruppo che sale sul podio. Chi è venuto a far gruppo. Chi è stato nel doppio. Chi ha solo guardato. Chi ha sempre giocato. Chi si è infortunato. Chi ha capitanato. Ma il cielo è sempre più blu. O almeno lo è in uno di quei momenti, rari e lisergici, esecrati o benedetti in cui un risultato sportivo in un luogo lontano (spesso la Spagna) scaccia le nuvole e la minaccia di tempesta. Femminicidi, echi di guerra, difficoltà economiche, “prendendo in mano la racchetta dimentichiamo tutto così in fretta”. Questo era Domenico Modugno, in quel 1976. Allora i politici fuggivano dai manici scottanti dell’insalatiera; ieri accorrevano, di persona o per interposto avatar. Scansatevi e lasciateci vedere questi ragazzi.
Certo, è un’altra Davis, stia sereno Pietrangeli. Non c’è meglio o peggio, c’è soltanto l’inevitabilmente diverso. L’evento diluito nel corso dell’anno è accorpato in una settimana, le cinque partite ridotte a tre, nello stesso giorno. L’esca funziona: se i nostri vanno avanti ci tengono aggrappati. Èuna specie di maratona di ballo, dove la musica non smette finché non resta un solo danzatore e quell’ultimo è Jannik Sinner, che doveva essere demoralizzato dopo aver perso domenica contro Djokovic e invece l’ha battuto da solo o in compagnia e se erano in tre li menava tutti e tre. Doveva essere stanco dopo i 5 set consecutivi e tirati di sabato e si è presentato davanti a De Minaur come un liquidatore fallimentare: prego, può chiudere bottega, sconsiglio altre attività, sei tre, sei zero. Nella sua maglietta gialla vagante per il campo De Minaur sembrava un uovo strapazzato sospinto ai bordi del padellino, ripreso al centro da un cuoco feroce, armato di spatola e goniometro. Era l’epilogo perfetto, la chiusura del cerchio. Quando Sinner apparve al mondo era il 2019, finale Next Gen a Milano, musica e luci stroboscopiche. Vinse battendo in finale proprio De Minaur. Si sentiva nell’aria la sigla di uno spettacolo annunciato, destinato a durare, l’irruzione di un fuoriclasse che avrebbe marcato i capitoli delle nostre vite come un segnalibro: dove eri quando vinse la Davis, cosa facevi quando conquistò quello Slam e a che punto era la tua esistenza quando infine… Non sappiamo dove arriverà, sappiamo quando è cominciata. L’amore, anche quello collettivo, è la fine dell’attesa. Da anni, troppi, si aspettava un campione popolare, qualcuno che non rilucesse nella gloria bisestile delle Olimpiadi, ma che apparisse con continuità sui nostri schermi, che ci rendesse orgogliosi in Europa e oltre, che facesse interrompere il Festival di Sanremo (anche per la durata di tre set, tutti al tie-break, di un’ora l’uno). Uno con la forza della gentilezza, che va ad abbracciare subito gli avversari, che ringrazia per primo il compagno che non ha giocato, che dopo un colpo sbilanciato e vincente sorride, ma comincia prima di aver toccato la palla, perché sa già come finirà e perché lo diverte un sacco. Poi c’erano gli altri. C’era Sonego che gli faceva da spalla nei momenti del bisogno. C’era questo Arnaldi sbocciato all’improvviso che ha portato l’unico punto non firmato da Sinner. Ma quando Jannik è sceso in campo dopo di lui abbiamo guardato il televisore come se avesse raddoppiato la velocità e non sapessimo quale comando fosse stato sfiorato. C’era Volandri che in doppio avrebbe schierato Sinner da solo, per stare sul sicuro. Da due settimane a milioni abbiamo fatto zapping con ogni sentimento al ribasso per fermarci quando appariva Jannik. Ci siamo abituati alla dose quotidiana di colpi che secchi ma gioiosi rimbombavano nelle nostre stanze. Abbiamo visto affinare le traiettorie, convincendoci che sia possibile, se non la perfezione, il perfezionamento. Sembra strano che oggi non si voli, ma il ragazzo dovrà pur riposarsi dal peso della felicità e dalla grandezza di questa specie di miracoli.
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