Rai, il fallimento delle scorciatoie
DI MICHELE SERRA
Non dev’essere facile, per i nuovi vertici della Rai, ammettere che l’azienda pubblica perde ascolti perché i nuovi padroni politici del Paese hanno epurato o emarginato solidi professionisti considerati “nemici” (nemici loro, certo non dell’azienda).
Eppure è esattamente, banalmente quello che è accaduto. Con un rapporto di causa/effetto così ovvio che si fatica a parlarne senza ripetere cose altrettanto ovvie.
La prima è che le persone che se ne sono andate, o sono state cacciate, lavoravano alla Rai (qualcuno da una vita) non per vassallaggio politico ma per capacità professionale, premiati da risultati che andavano a tutto vantaggio dell’azienda. La seconda è che non esisteva un piano B, c’era solo un piano A: cacciare “quelli di sinistra”. La terza, e la più importante, è che non basta proclamare un “cambio di paradigma” culturale per realizzarlo. Ci vogliono le persone, le idee e le competenze. La cosiddetta “egemonia culturale” non è un’intenzione, è un risultato. Non la si improvvisa. Non la si inventa. Non la si decide a tavolino. I risultati arrivano se prima hai lavorato bene: anche il più sprovveduto mister di calcio almeno questo lo sa.
La mediocrità è il punto di partenza di tutti, o quasi. Ci si lavora attorno, si rimedia alle debolezze, si sbaglia, si cambia, si imparano un sacco di cose.
È un percorso lungo. Ma non è sostituibile o surrogabile. Certo è più comodo e sbrigativo ricorrere ai colpi di spugna (cancel culture...). Ma poi i risultati si vedono.
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