Leghisti, moderati ma muti
DI MICHELE SERRA
Ogni volta che si legge dei malumori dei “leghisti moderati” o dei “leghisti della prima ora” nei confronti del Salvini (che ha dimezzato i voti senza perdere un solo grammo della sua leadership), ci si fa sempre la stessa domanda: ma in tutti questi anni questi signori, vedendo il loro partito, secondo il fondatore Bossi nato “antifascista”, rappresentare, specie in Europa, l’estrema destra, passando da Carlo Cattaneo a Marine Le Pen; scoprendo che il federalismo, con il quale ci hanno fatto una capoccia così per trent’anni, ha lasciato il posto al nazionalismo più esagitato; misurando la faziosità ideologica e l’aggressività personale del leader e dei suoi social, che non c’entrano nulla con il presunto pragmatismo “padano” sbandierato dagli amministratori leghisti, e c’entrano molto con l’intimidazione politica nella quale il Salvini eccelle; ebbene, che cosa hanno detto e fatto questi signori, come atto politico riconoscibile, per evitare che il loro partito diventasse un’appendice del nuovo fascismo europeo?
Del Salvini tutto si può dire, tranne che sia ambiguo. È il più schiettamente “nero” tra i politici italiani, tanto da far sembrare grigi molti meloniani. Lo è anche ufficialmente, in virtù dell’alleanza, del tutto trasparente, con Le Pen. Si prova imbarazzo per i vari governatori locali (Zaia e Fedriga, per fare nomi) che non hanno emesso neppure un belato contro il salvinismo, rendendo lecito pensare, a noi antileghisti della prima ora, che le radici di quel movimento non fossero per nulla democratiche. Ma antidemocratiche e intolleranti. Altrimenti, qualcuno avrebbe per lo meno invocato un congresso, o guidato la rivolta. Macché.
Inchiodati alle loro poltrone, come direbbe un leghista.
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