La tempesta e la guerra
DI MICHELE SERRA
Mi succede di simpatizzare per la tremenda ondata di maltempo che si è abbattuta sulla Crimea. Il sogno (ma è solo un sogno) è che gli uomini in guerra ne siano annichiliti, i loro arsenali congelati, le loro strategie travolte come fuscelli dalle raffiche furibonde del vento e dalle onde alte come leviatani. E rimangano al sicuro, asserragliati nelle case, solo le donne, i bambini, i cani e i gatti, con la minestra che bolle sul fuoco — ne sento l’odore. Le case possono resistere al vento. Alle bombe, no.
La tempesta possiede l’innocenza cieca e sorda della natura, non agisce per ideologia, per nazionalismo, per interesse economico, non accampa l’odioso pretesto della benedizione divina (Dio e Patria, un binomio genocida), non c’è pope che la benedica e non c’è ideologo che possa farla sua, non conosce i ridicoli confini tra le Nazioni, se ne infischia di avvantaggiare o di scoraggiare questo o quell’esercito. Non è costretta, per agire e per produrre i suoi danni, all’ipocrisia disgustosa degli Stati maggiori, dei ministri, dei Capi, che per ogni carneficina presentano le loro ridicole pezze d’appoggio.
Per la natura noi siamo uguali ai piccioni, ai cervi, alle nutrie, alle locuste, all’erba e ai boschi, quando capita la natura ci travolge e ci schiaccia senza domandarsi — nemmeno per un attimo — se siamo russi o ucraini, ebrei o palestinesi, l’unico criterio conosciuto, per una tempesta, sono le leggi fisiche che governano la biosfera. Nelle manifestazioni della natura (anche quelle miti, vitali e prospere) potremmo riconoscere quell’unità che ci rende tutti uguali, e che abbiamo tragicamente perduto.
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