Con Mimmo Lucano è assolto il Sud
di Francesco Merlo
La sentenza d’appello condanna gli accusatori dell’ex sindaco. Lui dice: “La Calabria offre due modelli all’Italia: la mia Riace e la loro Cutro”
Con Mimmo Lucano hanno assolto Ignazio Silone e Carlo Levi. E sarebbe stato più giusto se l’avessero completamente liberato, anche dalle piccole accuse. Ma già così, sostituendo l’enormità dei 13 anni e due mesi con l’esiguità di un anno e 6 mesi, questa condanna - non è un paradosso - assolve l’imputato e condanna i suoi accusatori, gli sceriffi di Sherwood, i giustizieri della Calabria Saudita.
Alla fine di un processo impossibile, senza reato, il mistero della mortificazione della calabresità di cui parlava Corrado Alvaro, sono dunque loro, tutti quelli che si erano inventati peculati e truffe e associazioni a delinquere, una “troppità” insostenibile per un rustico, disordinato ma lucido povero in canna, il sindaco della pietà, l’erede di Danilo Dolci e degli uomini neri che odoravano di zolfo, dei salinari, dei contadini di Li Causi e di Pio La Torre, una faccia tonda e ruvida nella quale si rivedono in controluce tutte le facce di quella corda pazza del Sud d’Italia, dove, è vero, anche la legalità può non essere legalità.
Ma Mimmo Lucano, no. Mimmo non è mai stato il fuorilegge costretto al delitto per bontà, come lo avevano mascariato i più furbi dei suoi nemici. Mimmo non somiglia a Robin Hood, semmai al frate Tuck, non quello gaudente di Walt Disney, ma il frate Tuck di Ridley Scott, quello con la smorfia dolente, che a Riace, nelle bellissima Calabria, è il dolore della questione meridionale.
Davvero hanno assolto con lui il Sud più generoso e popolare, le serate attorno a una tovaglia di plastica piena di molliche, il poverocristo che supera Eboli dove “lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta sempre dall’altra parte”, l’eroe moderno e al tempo stesso antico dell’accoglienza e soprattutto dell’integrazione, che è la grande sfida dell’umanità al mondo occidentale e che a Riace aveva finalmente trovato il suo modello vincente.
E bisogna averlo visto e frequentato quel paese che aveva incantato il mondo ed era persino finito al Moma di New York, il paese che era stato resuscitato dalla fiaba degli immigrati che arrivano dal mare. Invece di annientarlo con “la colonna infame” di un teorema giudiziario avrebbero dovuto riprodurlo nelle terre abbandonate, nelle campagne arse, e forse ci vorrebbe ora un’altra riforma agraria, intestata a Lucano e ridisegnata sugli immigrati.
“A quel tempo – racconta Lucano - lo Stato versava 35 euro al giorno a immigrato, ma solo a Riace con quei soldi abbiamo creato il frantoio, i laboratori artigiani, vetro, ricamo, carta, gli aquiloni di Hert, i vasi di Kabul… e un asilo nido plurietnico, una scuola, presidi medici, un ristorante, le borse-lavoro. E il paese diventò albergo diffuso per accogliere il turismo equosolidale…”.
I sereni giudici d’appello, che hanno assolto tutti i suoi 17 “complici”, non se la sono purtroppo sentita di assolverlo e risarcirlo anche per quelle irregolarità che pure ha commesso e forse persino ammesso, ma che il codice penale attenua per “l’alto valore morale e sociale” e cancella per “la particolare tenuità del fatto”.
Povero Mimmo, mentre lo soffocavano di baci e gli arrivavano le mille telefonate di entusiasmo e si moltiplicavano i mimìlucanisti d’Italia, ha pure imparato, e in una sola sera, che la sconfitta è solitaria e la vittoria affollata. Lo avevano infatti dimenticato anche quelli che, ai tempi della gloria, gli avevano offerto la candidatura europea che aveva rifiutato. Di sé dice: “Mi hanno reso importante, proprio io che dico tante cazzate, io che sono una testa di minchia. Ti dico una cosa che non devi fraintendere. Ricordi padre Puglisi, il prete santo? Quando a Palermo i mafiosi l’hanno ucciso, in realtà gli hanno dato la vita”. E adesso? “Hanno tentato di cancellare la storia di Riace, di farla scomparire dentro la sua geografia, in fondo alla montagna calabrese. L’avevo detto che sarebbe successo il contrario. Ora tutti capiscono che Riace non è mai stata così viva. E la Calabria offre all’Italia due modelli: la mia Riace e la loro Cutro”.
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