Il Grande Marcello
di Marco Travaglio
Marcello Dell’Utri aveva 30 milioni di ragioni (arrotondate per difetto) per cucirsi la bocca con i pm che indagano sulle stragi del 1993-‘94. Vedi mai che gli scappasse qualche parola di troppo. Soprattutto dopo i nuovi ordini diramati da Marina B. al governo (subito eseguiti) e anche a lui, destinatario con Marta Fascina di una bella fetta del testamento di Silvio “per il bene che gli ho voluto e per quello che loro hanno voluto a me”. Infatti ieri a Firenze non s’è fatto neppure vedere. Del resto era stato proprio lui a teorizzare l’aurea regola dell’omertà, piuttosto in voga fra gli amici mafiosi, ma del tutto inedita per un senatore della Repubblica. Era il novembre 2002 e lui, imputato per mafia e dunque scelto da B. come educatore dei futuri candidati forzisti, tenne in un hotel di Macerata un’imperdibile lezione su come farla franca nei processi: “Non parlare mai, avvalersi sempre della facoltà di non rispondere. Non patteggiare mai, salvo che siate colti in flagranza di reato… Seguire i consigli dell’avvocato solo quando la pensa come voi… Far passare più tempo possibile. Nei casi disperati, cioè quasi sempre, non preoccupatevi dell’anomalia principale dei processi: la durata interminabile. Anzi, la regola è proprio far passare il tempo. Che è galantuomo, alla fine rende giustizia. Se accelerate troppo, non otterrete una sentenza che vi soddisfi. Invece, col tempo, possono succedere tante cose: può essere che muore un pm, muore un giudice, muore un testimone, cambia il clima, cambiano le cose”. E dalle sue parti le cause di morte dei giudici e dei testimoni sono molteplici: non tutte naturali, ecco.
Voi capite di cosa ha paura uno così quando un magistrato ancora miracolosamente vivo lo convoca: non del magistrato, ma di se stesso. È talmente mafioso dentro che da quella bocca può uscirgli di tutto. Tipo quando disse a Chiambretti che “La mafia non esiste, è un modo d’essere, di pensare”, scavalcando la massima di Luciano Liggio (“Se esiste l’antimafia, esisterà anche la mafia”). O quando, intervistato due anni fa dal Foglio, incenerì trent’anni di balle su Vittorio Mangano “stalliere” o “fattore” deportato ad Arcore da Palermo per strigliare i cavalli (mai visti) o perché “espetto di cani”: “Mangano e Tanino Cinà vennero a Milano dalla Sicilia. Berlusconi dopo averli squadrati mi fa: ‘Uhm, accidenti che facce’… Eravamo negli anni 70 e la faccia di Mangano poteva tenere lontani i malintenzionati… Venne a vivere ad Arcore con la moglie, la suocera e le due figlie. Che giocavano in giardino con i figli di Berlusconi”. Il piccolo Pier Silvio e la più grande Marina, che 40 anni dopo non si dà ancora pace perché alcuni pm e “giornalisti complici” accostano il padre alla mafia: che siano malati?
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