Soldi, tv e anime nere. Così si è preso l’Italia. Il doppio volto di Berlusconi
1936-2023 - Ultimo schermo. Da Mediolanum alla P2, da Craxi ai matrimoni: ha vissuto più di tutti, incassato più di tutti
di Pino Corrias
Fine della sua straordinaria avventura di Fondatore, che è stata doppia fin dall’inizio, metà nella piena luce dello Spettacolo anche politico, l’altra in quella sempre oscura del Potere. Con Silvio Berlusconi, re di tutti gli incantamenti, se ne vanno quarant’anni della nostra storia, spesso la peggiore, lasciandosi dietro, oltre a una terrificante ricchezza, una intera epopea di successi, scandali, sconfitte, processi, due matrimoni veri, uno finto, a riempire gli scaffali di una doppia vita moltiplicata per cento vite, che partendo da una piccola periferia nella Milano del Dopoguerra ha ottenuto sempre il massimo dallo specchio delle sue brame, anche nel danno, e ha conquistato quasi tutto. Non solo le ville, i panfili, le pupe, le tv, il cinema, i trionfi del Milan, i fatturati di Mediolanum, quelli del gas russo, i forzieri d’oro sotterrati nel mondo, l’impunità (quasi) perpetua da P2, mafia, corruzione.
La banca rasini e l’aspirapolvere folletto
Ma anche il potere di tutti i poteri, quello dei Palazzi, declinato in un partito carismatico inventato per salvarsi dall’abisso, e con milioni di elettori che hanno felicemente comprato il suo mirabolante sogno del sole in tasca, acquistabile in tante comode rate. Salvo che il sole, le rate e la tasca erano sempre roba sua. A noi, gentile pubblico della sua insonne impresa, solo le luci del suo lungo e talvolta tragico varietà che erano fatte apposta per lasciare il buio in sala quando il numero sarebbe finito. E il palcoscenico vuoto, dove non salirà nessun erede.
Tra il vero e il verosimile, inizia tutto a Milano, al quartiere Isola, un 29 settembre del 1936. Padre cassiere della banca Rasini, madre casalinga, una sorella e un fratello minori anche nel destino. Infanzia a latte e pane nero, durante la guerra. Le scuole dai Salesiani. I primi soldi guadagnati vendendo aspirapolveri Folletto e cantando sulle navi della Costa Crociera: “Improvvisavo canzoni sulle belle ragazze in sala”. La laurea in Giurisprudenza con tesi sulla pubblicità. Il primo mattone nel 1961: “Lavoravo in cantiere anche il sabato. In canottiera e con il pennello in mano”. Poi le torri di Brugherio. Poi il primo quartiere satellite, Milano 2, finito di costruire nel 1979, che lui chiamava “architettura corale”, finanziata non si sa come e da chi, 6mila abitanti, le piste ciclabili, il laghetto, le palestre, lo slogan: “Il silenzio non ha prezzo”. Che riletto alla luce delle future accuse di finanziamenti mafiosi, dopo gli incontri milanesi con il boss Stefano Bontate, primi anni 70, ha una sua allarmante pertinenza.
Tv e “serenità”, ma la pistola sulla scrivania
E insieme ai prati fioriti, la primissima televisione condominiale, Telemilano, che diventerà Canale 5, il cuore della tv commerciale che ha fabbricato come nessuno prima di lui, grazie alla sua perfetta sintonia con l’italiano medio. Sbaragliando tutte le dinastie di carta: gli Agnelli, i Rusconi, i Rizzoli, i Mondadori. “Inventavo i palinsesti di notte. Per entrare nelle case degli italiani volevo conduttori eleganti, sbarbati, gentili. Donne bellissime. Serenità”. Lo ha fatto violando (serenamente) tutte le leggi dell’etere, tutte le regole in vigore, a cominciare dal monopolio pedagogico della Rai, cambiando per sempre il costume degli italiani, le loro abitudini e i consumi, il linguaggio e le aspirazioni. Cioè tutto quello che i suoi venditori di Publitalia, dal 1980, contabilizzavano in spot. Un miliardo di lire di fatturato il primo anno. Cinquemila vent’anni dopo, moltiplicati in euro fino a oggi.
Nell’anno 1977 è un milanese in rampa di lancio che vale 2 miliardi di lire. Costruisce case. Si dichiara democristiano. Il presidente Giovanni Leone lo nomina Cavaliere del lavoro. Gira con una Maserati Bora, due auto di scorta e si fa fotografare con la pistola sulla scrivania. Giorgio Bocca scrive: “Ma di cosa ha paura questo palazzinaro sconosciuto?”. Camilla Cederna lo incontra per la prima volta e sull’Espresso scrive: “In un ambiente di lusso, saloni uno via l’altro, continua a parlare un uomo non tanto alto, con un faccino tondo da bambino coi baffi, nemmeno una ruga, e un nasetto da bambola. Completo da grande sarto, leggero profumo maschio al limone. Mentre il suo aspetto curato, i suoi modini gentili, la sua continua esplosione di idee piacerebbero a un organizzatore di festini e congressi, il suo nome sarebbe piaciuto molto a Carlo Emilio Gadda. Si chiama infatti Silvio Berlusconi”.
Il bunker di Arcore e i labirinti della “legge”
E giusto Gadda avrebbe potuto raccontarne l’epopea da quei dettagli che già dicevano tutto di un uomo che dopo i mattoni assalta l’etere tv, protetto dal nascente potere di Bettino Craxi, che finanzierà sino al terremoto di Tangentopoli. Per poi voltargli le spalle, lasciandolo al suo destino di fuggiasco. E prendere il suo posto al centro della politica italiana, federare una nuova destra dilettante in tutto, ma ottima per ubbidire, salvarlo dai debiti e dai tribunali con leggi a sua misura, complici i silenzi della sinistra, e lo zelo di 105 avvocati a libro paga. Sudditi tutti, fino alla suprema farsa di quel 5 aprile 2011, quando 314 deputati della sua maggioranza, compresa l’underdog Giorgia Meloni, voteranno che Ruby, la minorenne pescata tra i dessert delle cene eleganti, era davvero “la nipote di Mubarak”.
Ma a dirne il suo lato oscuro, più di Gadda servirebbe Scerbanenco, per raccontare la storia del suo primo e proverbiale regno, la reggia di Arcore, villa San Martino, 20 ettari di parco, i quadri, i cavalli, gli arredi, che comprò per due lire, dopo il sangue versato dal marchese Camillo Casati Stampa che sparò prima alla moglie, poi all’amante di lei, poi a se stesso in un luminoso attico romano, lasciando orfana la loro figlia diciottenne. La quale, prima di sparire per sempre in Brasile, si fidò del suo giovane avvocato romano, Cesare Previti, che aveva trovato un acquirente, solvibile all’istante, un industriale milanese. Avvocato col quale Berlusconi si intese già al primo sguardo e per tutti i successivi, esperto com’era di labirinti romani e di magistrati capaci di sbrogliarli.
È sempre nel villone di Arcore che compare l’altra anima nera di Berlusconi, Marcello Dell’Utri, palermitano fatto di silenzi e ombra, ingaggiato bibliotecario, si disse, per la cura dei 10mila volumi dei Casati, ma che sbrigò l’arrivo da Palermo di Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore, in realtà killer di mafia a garanzia, diranno i sospetti prima dell’Interpol, poi di Paolo Borsellino, dei debiti contratti con le famiglie siciliane.
I format pre-politici e Forza Italia
Abisso perfezionato, nell’anno 1978, con l’iscrizione alla loggia di Licio Gelli, tessera 1618. Altra rete di protezione che garantiva prestiti dalle banche amiche a cominciare dal Monte dei Paschi, fideiussioni perpetue che gli permettevano di brillare nella parte emersa delle sue creature, dov’era l’intrattenimento televisivo a esercitare quella ipnosi niente affatto innocua dentro cui macinavano ascolti Mike Bongiorno e il Maurizio Costanzo Show, le serie americane di Dallas e Beautiful titolari della religione dei soldi e del successo, l’informazione di Emilio Fede, il borotalco politico di Gianni Letta, le manutenzioni di un Confalonieri eternamente Fedele, a formare una identità, una sintonia anche sentimentale con il Paese. Che in forma prepolitica era fatta di Sorrisi e Canzoni, come recitava il suo settimanale di carta, 2 milioni di copie negli anni d’oro, ma che era pronta a diventare il palinsesto di un partito, con l’inno dondolante su cielo azzurro, le bandiere al vento. Bastando il sorriso del Capo a trasformare quel pubblico televisivo in un elettorato, quando le impalcature della Prima Repubblica vennero giù e Berlusconi, nell’anno cruciale 1993, perfezionò l’allestimento del teatro suo. Lo intitolò Forza Italia, un mix di buoni sentimenti e di rancori antisistema, di frottole liberali e blande intenzioni autoritarie, di buonismo compassionevole e intolleranza alle regole, capace, nei primi anni del potere, di tenere insieme il tricolore sovranista dei post missini di Gianfranco Fini e l’Ampolla pagana del dio Po, innalzata dal secessionista Umberto Bossi.
“Avere tre televisioni mi ha danneggiato”
Tutto talmente finto da essere tramontato persino nel ricordo di questi quarant’anni di risacca politica in cui anche il masochismo della sinistra – credendosi astuta quanto Massimo D’Alema, Luciano Violante, Walter Veltroni – ha fatto la sua parte a consolidare il potere permanente di Berlusconi. I suoi conflitti. I suoi interessi. Il suo vittimismo: “Avere tre televisioni mi ha danneggiato”. E a riverirlo, offrendogli la testa di Romano Prodi che lo aveva battuto due volte su due, in attesa di una mancia adeguata in monete di consociativismo sonante.
Al netto delle molte opposizioni sociali, solo Berlusconi è stato capace di sfiancare Berlusconi. E poi la solitudine, suo eterno malanno psichiatrico, che credeva di guarire comprandosi il mondo. Solitudine che si aggrava in una manciata di anni, quando Veronica Lario lo abbandona in pubblico rinfacciandogli “le vergini che si offrono al Drago”; muore la madre Rosa Bossi; i conti dell’Italia vanno in malora al punto da costringerlo a uscire di scena dal retro del Quirinale, 12 novembre 2011. E l’anno dopo il Tribunale di Milano lo condanna per frode fiscale.
Declino intollerabile per il suo “narcisismo patologico”, di “unto del Signore”, non giudicabile dai magistrati “malati di mente”, ma solo dal popolo che lo ha eletto. Un narcisismo che gli consentiva di sbrigare un vertice internazionale con Angela Merkel e uno notturno con Patrizia D’Addario. Volare da Putin a Mosca e a Milano incontrare Lele Mora, spacciatore di vite a perdere. Frequentare Walter Lavitola, trafficante di pesce e sbrigare un summit con Gheddafi. Organizzare le vacanze con Giampaolo Tarantini, la sua batteria di prostitute, e festeggiare Barack Obama alla Casa Bianca.
Silvio Berlusconi ha vissuto più di tutti. Incassato più di tutti. Lascia un immenso patrimonio ai cinque figli. Qualche casa alle amanti. Un danno permanente all’Italia, compreso un partito di sola plastica. E poi lascia agli storici una intera mitografia, un’Era senza riforme, senza onore, intitolata a suo nome, e una infinità di bugie come mancia in spiccioli.
Nessun commento:
Posta un commento