Come le big della consulenza hanno svuotato Stati e imprese
IL GRANDE INGANNO - Un mercato da 900 mld basato su competenze finte, conflitti d’interesse veri e vaste reti di potere
DI ALESSANDRO BONETTI
Il nostro tempo di transizione si porta dietro, come sempre in casi analoghi in passato, sfide enormi a cui i governi e le imprese non sembrano preparati. Il motivo? Ce ne sono molti, ovviamente, ma un pezzo della colpa va anche alle grandi multinazionali della consulenza, che sempre di più svuotano il settore pubblico e quello privato di competenze e visione del futuro. È questa la tesi dell’economista Mariana Mazzucato (famosa per le sue idee sullo Stato imprenditore) e di Rosie Collington (dottoranda con Mazzucato all’Institute for Innovation and Public Purpose di Londra). Il titolo è eloquente: The Big Con (traducibile come “il grande inganno”). Secondo le studiose, infatti, le società di consulenza estraggono una rendita esagerata dalla propria attività, cioè guadagnano molto più di quanto giustificato dal loro contributo effettivo ai clienti.
Per argomentare questa tesi, le autrici hanno studiato il campo della consulenza per anni. È un settore molto concentrato: poche multinazionali, con sede nel Nord globale, dominano il mercato e sono fra gli approdi più ambiti dai neolaureati: si va dalle Big Four della contabilità (Deloitte, EY, KPMG, PwC) alle Big Three specializzate in gestione aziendale (McKinsey, Bain, Boston Consulting Group), fino a una moltitudine di sigle minori, le “boutique”.
Le aziende più grandi, peraltro, di solito non sono quotate in Borsa, ma inquadrate in strutture a responsabilità limitata: le loro attività economiche rimangono quindi opache, tanto che “valutare con precisione il mercato globale dei servizi di consulenza è impossibile”. In ogni caso, le stime suggeriscono che il mercato è cresciuto moltissimo negli ultimi decenni: nel 2010 il fatturato complessivo si aggirava intorno ai 350 miliardi di dollari, nel 2021 era fra i 700 e i 900 miliardi.
Cosa giustifica queste cifre enormi? Secondo la teoria classica, i consulenti sono esperti che aiutano i clienti a raggiungere i loro obiettivi e trasferiscono conoscenze tra organizzazioni. Secondo Mazzucato e Collington, invece, questa spiegazione non basta a dare conto della dimensione e pervasività delle società di consulenza: l’influenza di queste società deriva anche dalla loro capacità “di creare un’impressione di valore”. Un’impressione, si badi bene, perché spesso i consulenti non hanno una competenza specifica nel campo in cui di volta in volta danno consigli. Quel che conta, però, è che “le pratiche di consulenza e le immense risorse e reti delle grandi società contribuiscono a infondere fiducia nel valore di una consulenza”.
Grazie a questa apparenza di conoscenza tecnica e imparziale, i consulenti riescono a persuadere “governi svuotati e timidi” e “aziende che massimizzano il valore per gli azionisti” ad esternalizzare a loro le proprie attività. Un “trucco”, insomma, che permette al settore di accumulare rendite.
Le società di consulenza prosperano anche grazie all’ossessione per i risultati di breve termine, che spinge aziende e governi a rivolgersi ai consulenti invece di investire in risorse interne. I consulenti “surfano” abilmente sulle trasformazioni dell’economia, amplificandole e traendone vantaggio. E così l’ossessione per il breve termine diventa, da causa, anche conseguenza del loro ruolo sempre più invadente, in un loop senza fine.
La situazione è particolarmente grave nel settore pubblico. Più un governo esternalizza, più disimpara, più è difficile che abbia le competenze per negoziare coi propri fornitori, e più sarà spinto a esternalizzare ulteriormente: in questo modo diventa sempre meno capace di guidare i processi economici a vantaggio dei cittadini e sempre più vittima della retorica anti-Stato. Le conseguenze di questo circolo vizioso sono sotto gli occhi di tutti: oggi in Italia molti enti locali si trovano costretti a rinunciare ai fondi del Pnrr per l’incapacità tecnica di spenderli, come d’altronde avveniva spesso già negli anni passati coi fondi strutturali europei.
Tornando al nostro tema, com’è possibile che le consultancies siano divenute così pervasive? La spinta storica che fece esplodere il settore fu l’ondata neoliberale degli anni Ottanta e Novanta. Anche nei decenni precedenti i consulenti collaboravano attivamente con attori privati e pubblici, ma nella maggior parte dei casi fornivano soprattutto informazioni e competenze specialistiche. Dagli anni Ottanta, invece, iniziarono a occuparsi in modo crescente anche di management aziendale vero e proprio.
Sotto l’egida di politici di destra (come Reagan e Thatcher) e di centrosinistra (quelli della Terza Via, da Blair a Clinton), le società di consulenza furono coinvolte attivamente nella definizione di nuovi modelli di appalto pubblico, come le private finance initiatives (PFI). Nel Regno Unito nel 1997 il governo Blair reclutò membri della Andersen Consulting per capire come ampliare l’uso delle PFI negli appalti pubblici e poi creò all’uopo una società (Partnerships UK), il cui personale era composto soprattutto da consulenti provenienti da società private o comunque molto legati al settore. Nel frattempo, queste stesse società fornivano consulenze ai privati su come partecipare ai nuovi appalti. Un caso eclatante di conflitto di interessi, ma non l’unico né l’ultimo (vedi l’articolo a fianco).
Le società di consulenza sono arrivate a formare una burocrazia trasversale e privatizzata, che non deve rispondere di fronte ai cittadini e corre pochi rischi mentre realizza ingenti guadagni. Inoltre, con la loro aura di imparzialità, queste società possono fornire ai governi la legittimazione necessaria per decisioni controverse come tagliare la sanità o l’istruzione. Anzi, dato che la crescita della consulenza dipende da una continua esternalizzazione, i consulenti tendono a favorire strutturalmente politiche di privatizzazione e di “Stato minimo”.
D’altra parte, per amministrazioni pubbliche impoverite di competenze e fondi la scelta di ricorrere ai consulenti è quasi obbligata. Anche perché, a volte, le grandi consultancies si offrono di svolgere certi lavori gratis o a tariffe molto inferiori a quelle di mercato: basti citare qui l’incarico dato da Mario Draghi a McKinsey per la scrittura del Pnrr. L’esternalizzazione delle decisioni è una via “allettante per i funzionari pubblici in dipartimenti avversi al rischio che, dopo anni di tagli al bilancio, hanno poche risorse”. Mazzucato e Collington lo chiamano lowballing: grazie a questa strategia le società ottengono informazioni e contatti preziosi e penetrano ancor più nei gangli del governo.
L’espansione del settore si basa anche sulle dinamiche di funzionamento interne. Si parla ad esempio di up or out: l’alternativa per un dipendente è fra la promozione (up) o l’uscita dall’azienda (out). In realtà, anche se esci, è probabile che tu resti nel network della società per cui lavoravi ed è così che le società di consulenza sono riuscite a creare vaste reti di ex collaboratori che lavorano in altre aziende, ampliando così il proprio raggio d’azione e la capacità di raccogliere informazioni.
Negli ultimi anni varie inchieste giornalistiche e rapporti governativi hanno messo in luce le criticità del settore. Il libro di Mazzucato e Collington sembra andare più a fondo nella diagnosi del problema, che “non è la consulenza in sé o le intenzioni dei consulenti (…) ma l’industria della consulenza in continua espansione”, che cannibalizza le organizzazioni pubbliche e private. Le due studiose auspicano una riforma del settore, che obblighi le società a una maggiore trasparenza e le renda contrattualmente più responsabili di eventuali fallimenti. Se la diagnosi è giusta, però, sarà difficile vedere un sistema che si autoriforma.
Nessun commento:
Posta un commento