sabato 4 marzo 2023

Doveroso ricordo

 


ANNIVERSARI
I brividi infiniti del lato oscuro della Luna
Cinquant’anni dell’album “The Dark Side of the Moon” dei Pink Floyd. Un capolavoro di introspezione musicale che non smette di stupirci
DI PAOLO DI PAOLO
Ogni battito del cuore, ogni respiro che si spezza, per un istante, e poi riprende, il tempo che stringe ma lascia un varco. La morte, laggiù. Più lontano. Fa paura? Prima che arrivi: il semplice e miracoloso fatto di stare al mondo in questa forma umana. Ancora una voce, una voce umana, prima che il battito si spenga e si perda nell’immane tessuto sonoro del pianeta. Ogni filo è uno strumento naturale o uno strumento artificiale che lo supera, una frase pronunciata con accento irlandese, un cinguettio, uno squillo, un trillo, una sveglia che suona, un tonfo, un fruscio.
È appena passata la prima decade di marzo, è il 1973, a Londra il termometro si ferma intorno agli otto gradi a mezzogiorno. Non è ancora primavera. Il giovane uomo che fra i primi ha la fortuna di rigirarsi fra le mani una copia del vinile importato dagli Stati Uniti, dove il disco è uscito ai primissimi del mese, scruta un prisma triangolare rifrangente come uno stargate ante litteram: la scia di luce arcobaleno che ha illuminato per cinque decenni camere, camerette, pub, negozi, e non solo di dischi, sembra rischiarargli la fronte in una giornata uggiosa, nuvolosità intensa. The Dark Side of the Moon , Pink Floyd.
Il giovane uomo protegge il disco come una reliquia, anzi con più cura: come se fosse una creatura viva. Annunciata, promessa a chi l’attende da una gravidanza elefantiaca. Se ne è parlato per oltre un anno; e chi ha ascoltato per tempo i brani ha scritto in una recensione sulTimes che fanno venire le lacrime agli occhi. Al nostro acquirente accade quando, nella canzone del lato B Us and Them , entrano gli strumenti sul tappeto di organo Hammond. È lì, è un giro di secondi che gli scioglie qualcosa dentro. Lacrime pescate da un pozzo profondo, da qualche pianto frenato o interrotto milioni di minuti prima. È solo un pezzo, è una canzone, una singola canzone: la voce di David Gilmour soffia le parole, le soppesa — «Listen son» — e lui ascolta, con la sensazione già precisa che non si tratti però di una canzone, ma del capitolo di uno stesso compatto romanzo, una pagina dello stesso misterioso quaderno. Che, ecco, squadernato come in un verso dantesco offreuno straordinario inusitato colpo d’occhio sul Tutto. La musica è invisibile, però consente di vedere: il mondo come è, come dannatamente è, come dovrebbe e potrebbe essere. Questa guerra in Vietnam e ogni guerra passata e futura. Si può congegnare un disco come una specola, una cattedrale astronomica? E come uno speciale progetto artistico — un continuum interrotto solo in apparenza, nessun ritornello cantabile, una copertina magnetica nella sua essenzialità che diventa leggendaria. Per il primo acquirente come per l’ultimo dei già oltre cinquanta milioni che in cinquant’anni hanno avuto per le mani The Dark Side of the Moon, per il primo recensore come per quello che ancora deve nascere non è impresa facile spiegare un fenomeno musicale di questa portata — oltre novecento settimane nella classifica Billboard 200 — e enumerare le ragioni di un successo così resistente. Nessuna ragione «ovvia», è stato scritto: no, in effetti, nessuna.
In attesa del cofanetto dell’anniversario (con una copertina che sembra anche una petizione a favore della comunità LGBTQ+) e di un volumone celebrativo (dal 28 marzo per Rizzoli Lizard, Pink Floyd. The Dark Side of the Moon ), nuove e vecchie domande si caricano e ricaricano a ogni ascolto. I diretti interessati hanno voglia di rispondere? Rispondono, volendo, sul presente: Gilmour pro-vax, Roger Waters quasi pro-Putin. «Non c’è un lato oscuro, è tutto oscuro».
Forse l’unica verità è questa, e converrà farsela bastare. Non solo perché dopo mezzo secolo non è sbiadita né superata, ma anche perché, canzone dopo canzone, una canzone dentro l’altra, troviamo ancora noi stessi in quel flusso di racconto. I lampi di uno spazio interiore che non si è consumato. Un impressionante esercizio spirituale: guarda in alto, vivi a lungo, corri. Conta i momenti e non sprecarli. Il referto di un’angoscia eterna, planetaria: il tempo che passa; e di un’ossessione intramontabile: soldi! Il diario atterrito di conflitti fra «noi» e «loro» che si rinnovano. Ecco uno sparo. Il senso come di una perenne incompletezza, e di un ospite ingrato che abita la psiche: «Il pazzo è nella mia testa». Che lingua parla? La lingua del mondo, un intreccio polifonico, restituito da questa sconvolgente alleanza fra strumenti — chitarre, basso elettrico a dialogo con l’organo, sassofono e voci umane — e rumori e respiri. Rombi di motore, elicotteri in cielo, borbottio di lavatrici, porte che sbattono, ronzii radiofonici, sfrigolii. Un giornalista sportivo racconta, un uomo ride. «Confabulazione di voci» scrive Michele Mari, sofisticato scrittore-fan, nelle pagine del suo Rosso Floyd. «C’è il pop, c’è il rock, e ci sono i Pink Floyd», assicura. E per evitare un’analisi di questo disco e dell’intero lavoro della band in chiave New Age, per aggirare l’interpretazione che pretende di leggere la loro musica inconfondibile come «manifestazione di un senso panico della natura», invita — attraverso la testimonianza di un personaggio — a pensare i Pink Floyd come «aspiratori-succhiatori di suoni, una band di vampiri acustici». Sono riusciti a spaventare Stanley Kubrick e Michelangelo Antonioni, a inventare un immaginario. Hanno fatto insieme la storia della musica, e oggi pretendono di essere intervistati separatamente. Ognuno ha la sua versione dei fatti. La memoria non si condivide, nemmeno quando è così fuori dal comune. A ciascuno i propri ricordi, le proprie risposte. Ci incontreremo sul lato oscuro della luna.

Nessun commento:

Posta un commento