di Selvaggia Lucarelli
E difficile ascoltare le parole del ministro Piantedosi sul naufragio di Cutro (63 annegati, tra cui 15 bambini) e rimanere fermi sulla sedia, perché viene voglia di alzarsi, afferrarlo per la giacca e scuoterlo, come in certe brutte fiction in cui è tutto orribilmente teatrale, e chiedergli se stia scherzando, se stia recitando un copione, se davvero lui sia quello che dice.
Ci sono molti livelli di disumanità, ma l’anti-empatia credo sia il più basso e irrecuperabile. L’anti-empatia è quella cosa per cui tu fingi di essere capace di metterti nei panni degli altri e non per comprenderne le emozioni, ma solo per sancire la tua superiorità morale in ipotetiche situazioni che riguardano, appunto, gli altri. Quelli che: “io se mi fosse morta una madre mai sarei andata in tv”. O: “io al posto di tizio mai avrei accettato quel compromesso”. Poi c’è Piantedosi, ministro, prefetto, 63 anni, che con la stessa anti-empatia riesce a mettersi nei panni bagnati dei naufraghi e spiega loro la vita, l’educazione, il senso di responsabilità, perché lui sì che ha il senso dell’onore e conosce l’etica, mica gli altri, quelli che scappano senza diritti e senza il dovere di farlo.
“Io non partirei perché sono stato educato alla responsabilità di non chiedermi solo cosa mi debba aspettare dal paese in cui vivo, ma anche quello che posso dare io al paese in cui vivo per il riscatto dello stesso”. Certo, se lui fosse stato uno dei 28 afgani morti in mare avrebbe senz’altro cercato di riscattare il suo paese dalla violenza talebana. Se fosse stato uno dei 16 pakistani morti con i polmoni pieni d’acqua sarebbe rimasto senz’altro ad affrontare a testa alta terrorismo, talebani, violenza, instabilità e povertà. Se fosse stato uno dei somali affogati tra le onde, Super Piantedosi sarebbe rimasto senz’altro ad affrontare guerra e carestia, magari con moglie e figli destinati a morte certa, stupri, fame.
“Non devono partire, questo messaggio è etico, non bisogna esporre donne e bambini a situazioni di pericolo”, ha detto col tono del generale che parla alle truppe.
Già, come se il luogo da cui questa gente scappa non fosse già esso stesso una situazione di pericolo tale da spingere a compiere il gesto disperato di buttarsi in mare, magari con un neonato in braccio, il buio, una barca scassata e le onde altissime.
Mentre dice queste cose spaventose, già spaventose nella sostanza e come se non bastasse pure con toni, mimica facciale, comunicazione non verbale assolutamente spaventosi (osservate le mani che indicano quasi la presenza di una lavagna invisibile su cui i migranti possono leggere i loro diritti e i loro doveri nel campo della vita e della morte), penso a qui disperati sulle Torri gemelle col fuoco alle spalle, che sceglievano di morire lanciandosi dalla finestra, perché chissà, forse una tenda, un rimbalzo fortunato, magari un osso rotto e ci si salva. La finestra aperta sul nulla faceva paura, era un lumicino di speranza, il fuoco ormai alla porta no, il fuoco era morte lenta e dolorosa. Loro sono diventati eroi, perché morti sui marciapiedi. Gli altri sono intrusi, perché venuti a morire nei nostri mari.
Gli altri non potevamo salvarli, questi sì. È per quello che sono scomodi, vanno spogliati di umanità, va rimossa l’idea che partano o no siano spacciati comunque. I Piantedosi di questo governo devono convincerci che questi dissennati muoiano da irresponsabili, da vigliacchi disertori che scelgono di privare il loro paese delle sue risorse migliori.
E invece noi non ci facciamo fregare, non dimentichiamo mai che quei viaggi tra le onde esistono perché il loro unico modo per vivere è quello di rischiare di morire.
I Piantedosi ci raccontano che quelli lì sono egoisti perché è il modo più subdolo per non ammettere che sì, quelli lì sono avidi, sono assetati: hanno disperatamente voglia di futuro.
Come l’avremmo noi, e non a costo di morire.
Lo sanno già che forse moriranno.
Partono a costo di salvarsi.
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