Che cosa Pompei ci racconta
DI MICHELE SERRA
Vedo e sento il ministro della Cultura, Sangiuliano, spendere a Pompei nobili parole su quella città dissepolta, simbolo, dice al Tg2 (ex suo), dell’identità nazionale. (Alle parole “Nazione” e “nazionale” azionate sempre le sirene di allarme: nove volte su dieci non sbaglierete).
Non voglio infierire rammentando il facile abuso che il fascismo fece della romanità e dell’Impero, realtà cosmopolite, interreligiose e multiculturali che la propaganda nazionalista trasformò in un mito provinciale, parodia cartapestacea di una monumentalità irripetibile.
Parlare, a Pompei, di “identità nazionale” è come ridurre, duemila anni dopo, i confini del mondo classico a una porzione davvero minima dell’Europa, l’Italia attuale, che tanto ci è cara quanto ci sono note la sua ridotta dimensione e la sua piccola influenza.
Più subdolamente, piace fare presente a Sangiuliano che Pompei, come raccontano i suoi affreschi licenziosi, il suo lusso ostentato e poi calcificato dal vulcano, era una tipica realtà radical chic. Ante litteram. Un conservatore dell’epoca avrebbe speso parole di condanna per quegli antichi gaudenti, avviati alla decadenza, avvinazzati ed erotomani, che l’eruzione punì severamente ben prima che i cristiani e i barbari (in ordine di apparizione) arrivassero a occupare Roma e a mutarne il destino, diventando Roma essi stessi.
Quello che sbalordisce, visitando Pompei, è la raffinatezza del mondo classico e al tempo stesso la sua fragilità.
Dobbiamo vivere felicemente e poi ci tocca morire — questo racconta Pompei — e non si capisce bene quanto di “italiano”, e non di mondiale e di umano, ci sia in questa piccola storia di splendore e di sgomento.
Nessun commento:
Posta un commento