Un lavoro interrotto
DI MICHELE SERRA
Una sorella, due genitori, una nonna, un prete anzi due (il cappellano don Burgio e quella gran persona che è don Rigoldi). Leggendo e ascoltando le parole delle persone coinvolte, si capisce che i sette ragazzi evasi dal carcere minorile di Milano possono contare, dentro e fuori, su qualche adulto in grado di dare loro buoni consigli. Tre sono già tornati dentro. Don Rigoldi si aspetta una telefonata dagli altri quattro.
Come tutti, per istinto, alla notizia dell’evasione la prima cosa che mi è venuta in mente è l’allarme sociale.
Saranno pericolosi? Magari qualcuno sì.
Non avevo pensato, invece, al lavoro interrotto: il lavoro di recupero sociale, psicologico e umano che delle carceri è il compito più importante (articolo 27: “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere al recupero del condannato”).
In un carcere minorile vale il doppio.
Che in quei luoghi così importanti si lavori è un tema davvero trascurato.
L’idea più corriva e stupida del carcere (ben rappresentata dai politici forcaioli) è il “butta via la chiave” che li apparenta a un cimitero di vivi. E invece, dal personale agli operatori sociali ai volontari ai medici ai preti, sono molte le persone che lavorano in carcere: compresi i detenuti. Vanno aiutate a lavorare. Cosa pensereste di una fabbrica con le macchine in panne e le finestre rotte? Il Beccaria non ha un direttore da vent’anni e da quindici è aperto un cantiere senza fine. Da quel buco (lavori in corso) sono scappati i detenuti. Da quel buco rischia di scivolare via il lavoro paziente di chi si occupa dei ragazzi che hanno sbagliato.
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