mercoledì 7 dicembre 2022

L'Agenda meloniana

 

L’agenda Meloni in stile Renzi: tante parole e nessun fatto
DI DANIELA RANIERI
Pensavamo che avere un governo di destra, pieno di residuati missini e berlusconiani e aspiranti intellettuali à la Benedetto Croce con spruzzate di cultura fantasy stile Atreju, ci avrebbe almeno risparmiato la piaga dello storytelling, la pratica anglosassone di stampo lib-dem di intortare gli elettori con la comunicazione invece di convincerli con la politica. Invece la “narrazione”, sbarcata in Italia sulla groppa del renzismo (per poi sfracellarsi al suolo), contagia pure Giorgia Meloni (e del resto Marine Le Pen è entrata su TikTok sulle note dei Måneskin). Mentre al reparto egemonia culturale (tv pubblica e Istruzione e Merito) lavorano uomini di retroguardia, analogici, reazionari, dannunziani e nostalgici delle punizioni scolastiche, lei, Giorgia, va all’attacco coi video sui social, dove finalmente può raccontarsi “disintermediando” il messaggio, come faceva Renzi, invece di sbroccare in conferenza stampa adducendo altri impegni. Pur senza raggiungere quelle vette di cialtroneria, la nuova rubrica #gliappuntidiGiorgia, con cui dal suo ufficio a Palazzo Chigi Meloni informa col quaderno in mano i cittadini circa le misure del suo governo, è – oltre che mortalmente noiosa: 25 minuti di parole, inquadratura fissa, qualche zoom in primissimo piano sui punti salienti – una prova che Meloni sta arrancando sul piano politico. Fingendo di aprire il quaderno a caso, a dire che è preparata su tutto e pronta all’accountability, infila mosse difensive del tutto fuori fuoco. Una è sul Reddito di cittadinanza: “Tra il reddito e rubare”, dice facendo il verso a una signora di Napoli che paventava il doversi dare al furto una volta privata di Rdc, “l’opzione di lavorare forse la dovresti prendere in considerazione”. È il frutto della torsione linguistica per cui i disoccupati sono diventati “occupabili” e dunque se una persona non ha lavoro è perché preferisce poltrire che contribuire al Pil (ma tra i percettori ci son anche persone che pur lavorando sono sotto la soglia di povertà).
L’altra è sul tetto al contante: “È falso”, dice, “che la possibilità di utilizzare moneta contante favorisce l’evasione fiscale: come dice la Guardia di Finanza, uno che vuole evadere evade comunque”, quindi si possono dare armi ai cittadini, tanto chi vuole ammazzare ammazza comunque, si possono togliere i limiti di velocità in autostrada, tanto chi vuole andare a 220 km/h ci va comunque, etc. “Per paradosso più è basso il tetto al contante e più si rischia evasione, perché siccome i contanti io posso averli in casa per svariati motivi, se non li posso spendere legalmente, tenderò a farlo in nero”. Più che un paradosso, è una scemenza. Alzare il tetto al contante serve proprio a far spendere capitali in nero a spacciatori, tangentari, spalloni e taglieggiatori, e uno studio di Banca d’Italia dice che c’è un nesso di causalità tra utilizzo del contante ed evasione. Abile nella comunicazione informale (vedi video su TikTok in silenzio elettorale, con lei che maneggiava due meloni che subliminalmente avrebbero dovuto indirizzare il voto), Meloni è debole in quella istituzionale, che invece ha fatto innamorare i commentatori dei giornali padronali (“assertiva”, “fuoriclasse”, “rigore da generale prussiano”). La sua personale narrazione, che l’ha portata al governo, è che c’è qualcosa o qualcuno che ci impedisce di essere patrioti, madri e padri, cristiani e italiani. Contro questo potere invisibile bisognava mandare al governo lei, Lollobrigida, Valditara, Santanchè, etc. Con questo armamentario retorico (e umano) non si può campare di rendita. È una dura fatica essere insieme underdog e credibile, varando misure che scontentano tutti e affamano il popolo che l’ha votata. Meloni pensa di farlo con lo storytelling ma, come spiegano nelle scuole politiche serie, il Titanic aveva un problema di iceberg, non di comunicazione.

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