mercoledì 3 agosto 2022

Nostalgia

 

Andavamo al mare come naufraghi avevamo tutto senza comprare niente
di Diego De Silva
Appartengo a una generazione che, dall'infanzia all'adolescenza, non ha mai avuto a che fare con i soldi. Non che non ci piacessero, o avessimo qualcosa in contrario: è proprio che non ne avevamo. Non ce li davano. La cosiddetta paghetta (parola orrenda) che ci veniva corrisposta settimanalmente, era abbastanza simbolica. La frequentazione abituale di locali, ristoranti, discoteche, lounge bar, il consumo di aperitivi costosissimi (per noialtri che ancora patiamo qualche scampolo di nostalgia delle lire, fare la conversione all'inverso è un tuffo al cuore, un esercizio masochistico volto al rimpianto di tempi andati), la moda votata al brand, l'uso di telefoni evoluti (e carissimi) con cui si organizza il tempo libero, sono opportunità che a noi erano del tutto ignote, o meglio inimmaginabili.
L'idea di uscire di casa senza una lira in tasca (o quasi), era scontata. Non era una diminutio, e neanche una forma di esclusione sociale: il ricco, quando capitava (perché ogni tanto capitano, i ricchi), lo riconoscevi subito. Anche quello non cafone: lo tradiva un dettaglio dell'abbigliamento (più spesso un accessorio), un lieve (ma caratteristico) eccesso di disinvoltura (di chi è disabituato alla resistenza del mondo, per cui tutto gli è possibile, e non conosce l'ostacolo), una raffinatezza seriale; ma era minoranza, e in quanto tale non creava frustrazioni significative.
Tempi tristi? Neanche per idea. Era bello non avere soldi e vivere lo stesso, divertirsi addirittura. Non avere carte di credito. Non avere padroni. Questa libertà dai soldi, naturalmente, era possibile in un contesto socioeconomico che garantisse queste zone franche, questi ambiti senza mercato in cui il denaro non contava perché c'erano cose che, molto semplicemente, non erano in vendita. Per esempio, una spiaggia.
Era bello andare al mare senza staccare un biglietto una volta arrivati. Stendere l'asciugamani dove capitava. Sentirsi mezzi naufraghi. Senza juke-box, bar e chioschi che diffondono musica orrenda e sovrapprezzano i gelati confezionati correggendo impunemente la cifra di ogni singolo prodotto con un colpo di pennarello.
Di spiagge libere si andava alla ricerca. Perché ce n'erano, e tante; diversissime, sia nell'ampiezza che nella composizione. Qualcuna la scoprivi con orgoglio. In un'insenatura, un fazzoletto intuito fra alberi a strapiombo sul mare, raggiungibile attraverso percorsi inventati al momento. Non sgabuzzini di spiaggia, corridoi striminziti fra recinti di lidi privati, ma spiagge inamministrate, padrone di se stesse, libere nel senso proprio dell'autoregolarsi, dello sfuggire alla rapacità del mercato. Randagie.
Quel che resta, oggi, della spiaggia libera, non ha più nulla di randagio. Sempre più ridotto alla dimensione del ghetto, con l'apprensione continuativa del demanio da parte della cosiddetta libera impresa, il concetto stesso di "spiaggia libera" perde la sua accezione più nobile, quella politica, a vantaggio di una spiccatamente economica. La spiaggia non è libera perché libera dal mercato (dunque appartenente a nessuno). Non è libera perché incomperabile. Non è libera perché la sua anarchia è l'applicazione più alta della società del diritto. È libera perché non si paga. E nel libero mercato (paradossale, che proprio il mercato si definisca libero), ciò che non si paga vale niente, è causa persa, indegna di considerazione, improduttiva di lucro e dunque di senso. Il fare uso gratuito di un bene è, a tutto concedere, un'opportunità che il mercato concede.
Ma una spiaggia libera è ben più di un bagno scroccato. È un diritto. La riappropriazione di uno spazio naturale in cui i soldi non contano. Ogni volta che pianta il suo piccolo ombrellone nella sabbia e apre la sdraio pieghevole su quel poco di spiaggia che gli hanno lasciato graziosamente in uso, il libero spiaggista rivendica un mondo in cui è ancora possibile godere delle sue bellezze senza tirar fuori la carta di credito.

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