domenica 21 agosto 2022

Inchiesta parte due

 

Ecco la seconda parte dell'inchiesta di Repubblica su Giorgia Meloni 

Orbán, il custode dell’ortodossia. Abascal, il sodale di Vox. Le Pen, la madrina Così Giorgia Meloni vuole trasformare l’Italia in un Paese sovranista avvicinarla a Visegrad e costruire un’Europa dei popoli. Lontano da Bruxelles

Inchiesta

su M.

LA PASIONARIA NERA CHE INCANTA VOX


Una grande M. si aggira per l’Europa. Fiammeggia da Roma. Spaventa le cancellerie. Inquieta Bruxelles. Disorienta i mercati. Entusiasma le anime destre dell’intero continente. Il comizio di Marbella che ha infiammato la folla di Vox è stata la miccia, ha scolpito le parole d’ordine del manifesto politico che surriscalda già la pancia di un elettorato stanco dei “Draghi salvifici”. C’è voglia di abbattere i palazzi e con le macerie costruire muri, erigere barricate, posizionare steccati, mettere in discussione diritti, se sarà necessario. C’è il triangolo Dio, patria, famiglia da ripristinare.

Roma, Madrid, Varsavia, Budapest. Ma anche Parigi, rive droite . E, con qualche affanno in più, Washington. La rete internazionale di Giorgia Meloni si snoda – con altre ramificazioni - all’interno di questa cornice. Le sponde ungheresi di Fidesz dell’amico Orbàn, quelle polacche di PiS del sodale Morawiecki, l’ala più radicale dei repubblicani Usa, il fronte dell’estrema destra spagnola di Vox con la quale è ormai amore conclamato, le “affinità elettive” col Rassemblement National di Marine Le Pen. È la mappa di un’Europa nuova, finora sconosciuta, un’«Europa dei popoli» e non più delle “cancellerie”, quella che sogna la leader di Fratelli d’Italia. Proverà a costruirla se diventerà la prima presidente del Consiglio donna, all’indomani del 25 settembre. Un pantheon inedito, valori arcaici la ispirerebbero.

La seconda puntata dell’inchiesta su M. è un viaggio nel mondo che attende col fiato sospeso quel day after italiano. E forse non solo italiano.

La sede nazionale di Vox, al numero 33 di Calle Padre Damián, a Madrid, lungo i confini di Hispanoamérica e Castillejos, è annerita dalle bruciature che sembrano provocate da un attentato. Le striature nere resistono allo strato di vernice fresca bianca passato sulla serranda chiusa. Una battaglia che si consuma colpo su colpo. Qualcuno l’ha di nuovo marchiata con una scritta che suona come un monito: “Il fascismo è condannato a morte”. Sotto, una svastica coperta da una x. Più che il cuore dello Stato maggiore della destra estrema spagnola sembra la filiale di un’agenzia immobiliare. Si affaccia su una strada borghese di un quartiere borghese, ornata di grandi alberi e punteggiata da bar e ristoranti. L’ingresso è anonimo. Vetri e cemento, l’insegnaverde del partito che spicca in alto. Quasi una sigla pubblicitaria.

Siamo arrivati qui per capire cosa sia oggi l’estrema destra spagnola, cosa abbia provocato un successo che nessuno si aspettava, che ora desta interesse e un certo allarme. Cosa lega Vox a Fratelli d’Italia. Quali parole, ideologie, valori, progetti e proposte. Per scoprire che esiste un nuovo asse nero in Europa. Quello sancito da Giorgia Meloni nel suo intervento appassionato, focoso di Marbella, il 16 giugno scorso, al termine della campagna per le elezioni in Andalusia. Una vera sorpresa. Il popolo di Vox ha sentito pronunciare le parole che voleva sentire. Per la prima volta. Parole chiare, dirette. Patria, bandiera, nazione, lotta all’aborto, alle identità di genere, agli immigrati, all’islam. Stesso linguaggio, stessi obiettivi.

Suoniamo alla porta sul retro. Non risponde nessuno. Gli uffici, si legge in un piccolo cartello, restano chiusi per tutto agosto. Inutile insistere per telefono. Tutto rinviato a settembre. Anche Vox, come gran parte di Madrid, ha preso il largo. Troppo caldo, la colonnina di mercurio supera i 41 gradi. La capitale è avvolta da una cappa di caldo opprimente. Scattiamo qualche foto. Si avvicina un signore, sulla quarantina. Ci chiede cosa cerchiamo, chi siamo, cosa vogliamo. Non è un militante, dice di essere un simpatizzante che vigila, come tanti altri del quartiere, sulla sicurezza del suo partito. Non è aggressivo. È, piuttosto, incuriosito. Con modi gentili ma fermi ci invita ad allontanarci. «Qui non c’è nessuno. Se volete sapere di Vox chiedete in giro», suggerisce. «Troverete le risposte che cercate».

Così sarà, in effetti. Vox è una forza nata da una costola delusa del Partido Popular, che in dieci anni è riuscita a superare il 15 per cento dei voti, far eleggere 52 deputati al Parlamento valenciano, conquistare la presidenza di quello di Castilla y Leon, la regione di Madrid, far eleggere una vicepresidente, e i ministri della Cultura dell’Agricoltura, dell’Industria e Lavoro. Ormai fa parte a pieno titolo del Gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei, presieduto da Giorgia Meloni. Si sa, almeno ufficialmente, che il bilancio 2019 di Vox ha fatto registrare il suo miglior risultato: ha moltiplicato per sette le sue entrate, accumulando un patrimonio netto di 5,9 milioni di euro; appena un anno prima erano 1,1. Nel 2020 il salto a 15 milioni di euro. Da dove arrivano tanti soldi? Dai privati, soprattutto. Donazioni che restano anonime o sfruttano l’esenzione fiscale perché finiscono nella “Fundación”.

OLTRE I PIRENEI COME A CASA

L’ITALIA IN VISEGRAD


Il prossimo appuntamento è già fissato. 10 e 11 ottobre, Madrid. Giorgia Meloni sarà la “guest star” della Segunda Cumbre Iberoamericana organizzata da Vox e da ECR, il Gruppo dei Conservatori e riformisti europei di cui la leader di FdI è presidente. Gli amici spagnoli sono già in fremente attesa, sicuri che Meloni si presenterà da primo ministro e da capo del governo italiano – facendo un po’ di fuoripista rispetto al possibile profilo istituzionale - snocciolerà i suoi sonori “olè”, e “via la Spagna”, “viva l’Italia”: le parole d’ordine che infiammarono la platea di Vox a giugno, nel famoso discorso muscolare di Marbella, e l’autunno scorso – era il 10 ottobre – sempre a Madrid, al Viva 21, il meeting con cui il partito di estrema destra spagnolo presentò la sua agenda politica. FdI e Vox. Italia e Spagna. Se fosse un film si intitolerebbe “Casa Iberica”. Perché “donna Giorgia” , oltre i Pirenei, si sente davvero a casa. Una-due volte al mese Meloni vola a Madrid. Chi la conosce sa che ama la Spagna e la lingua spagnola, e ha amicizie di lunga data sia nella capitale sia a Barcellona. Alcune risalgono agli anni della militanza nelle organizzazioni giovanili del Msi, altre sono più recenti. A ogni modo: dal 2017-2018 i viaggi della leader FdI nel Paese della penisola iberica si sono intensificati. Trasferte politiche, per lo più. Perché FdI e Vox – per dirla con alcuni osservatori spagnoli – sono “una faccia, una razza” (espressione usata dai soldati italiani in Grecia nell’ottobre 1940). Due partiti omologhi. Che si definiscono moderni e conservatori ma che, nemmeno troppo velatamente, ammiccano a quel mondo neofascista da cui provengono alcuni loro esponenti. Un mondo di cui scongelano discorsi e proposte politiche e con il quale - anche nell’uso dei simboli - , intrattengono relazioni. Due partiti osmotici. Con due differenze. La prima: che in Italia FdI è dato dai sondaggi primo partito, mentre Vox – alle ultime elezioni generali spagnole (2019, 15,09%) – è diventato terza forza del Paese. Seconda differenza: Vox ha alcuni deputati che provengono dall’Esercito.

Lui si chiama Jorge Buxadé, due anni in più di Giorgia Meloni. E’ europarlamentare di Vox. “Buxa” – come lo chiamano i membro della delegazione dei “patrioti” di stanza tra Bruxelles e Strasburgo - è il filo da tirare per capire l’intensità dei rapporti di “Giorgia” con la Spagna. Insieme all’ex giornalista Hermann Tertsch - anche lui eurodeputato (Vox ne ha piazzati tre nel 2019, poi ne ha guadagnato un quarto con l’uscita del Regno Unito) – è l’uomo che ha costruito l’intelaiatura tra Vox e FdI proprio attraverso l’Europarlamento. Siamo a giugno 2019. Dettaglio interessante. Vox è introdotto nel Parlamento Europeo da un eurodeputato del PiS polacco che nella primavera del 2019 organizzò una conferenza di Ortega Smith (altro uomo chiave: tenete a mente il suo nome) a Bruxelles. Da qui le ottime relazioni con i polacchi e l’ingresso dopo il voto di giugno nell’ECR dove gli spagnoli si sono trovati con Meloni. Ma restiamo a Buxadé. Il suo passato “parla”. Negli anni ’90 si candidò per due volte con la Falange Spagnola, la formazione neofascista che ancora mantiene il nome dell’unico partito esistente durante la dittatura di Francisco Franco. La Falange non solo rivendica il passato dittatoriale, ma difende e auspica l’instaurazione di un regime autoritario. “ Buxa” non è l’unico esponente di Vox proveniente dal noto movimento di estremissima destra. C’è, tra i big, Javier Ortega Smith. Eccolo. Segretario generale del partito, deputato nelle Cortes di Madrid. Scriveva su un giornale falangista esaltando José Antonio Primo de Rivera, fondatore della Falange negli anni ’30. Nel 2018 – quando Vox fa il botto alle urne – Ortega partecipa a una cena della Fondazione Francisco Franco e dice: «Josè Antonio Primo de Rivera per me è uno dei più grandi uomini della storia, un magnifico patriota, un grande ideologo che lottò contro i nemici della patria, come facciamo noi ora». Viene in mente la Meloni diciannovenne che nel 1996 elogia Mussolini (“Il miglior politico degli ultimi 50 anni”), e quella, versione decisamente più matura, che celebra come “grande patriota” Giorgio Almirante teorizzatore del “razzismo del sangue” contro “meticci” ed “ebrei”. Fantasmi che riemergono. O che non se ne sono mai davvero andati. In Italia come in Spagna. Jorge Buxadé è il voxiano più vicino a Meloni. Era con lei (e il portoghese André Ventura di Chega) a ottobre alla convention Viva 21 organizzata da Vox a Madrid. A dicembre 2021 è ospite di FdI ad Atreju. «Chiediamo un’alleanza mediterranea che si opponga a questa Europa federale di burocrati che credono che la politica sia un foglio Excel», chiosò davanti ai “patrioti” tricolori.

Ad applaudirlo c’era il giovane intellettuale vicino a Meloni, quel Francesco Giubilei, presidente della Fondazione Tatarella e di Nazione Futura, autore della biografia politica “Giorgia Meloni – la rivoluzione dei conservatori”. L’edizione spagnola del libro si apre con la prefazione firmata da Buxadé. A pubblicarla è Homo Legens, casa editrice legata a Vox, nota per avere dato alle stampe testi commemorativi di Franco. Sempre Buxadé, l’amico spagnolo di “Giorgia”, vola con Macarena Olona (di cui diremo tra poco) nella sede di Rassemblement National di Marine Le Pen, a Parigi, il 24 aprile scorso. Foto opportunity inondano i social: servono per lanciare Olona in vista delle elezioni andaluse. Esattamente quello che farà anche Meloni il 13 giugno scorso a Marbella. “Viva Macarena Olona!”, “Viva la Spagna!”, dirà dopo avere attaccato immigrati e “lobby Lgbtq”.

La presidente di Fratelli d’Italia non deluse. Al contrario, lasciò tutti di stucco con il suo perfetto spagnolo e quelle parole che incendiarono gli animi. Benzina sul fuoco che la stessa leader cercò di spegnere il giorno dopo davanti alle reazioni allarmate dentro e fuori la Spagna. «Yo soy Giorgia, soy una madre, soy una mujer, soy una cristiana. No me lo pueden quitar», urlò davanti alla folla. Un tripudio. Il sugello di un rapporto costante, cresciuto negli anni. L’asse della nuova estrema destra europea e forse mondiale.

Macarena Olona. Deputata di Vox nel parlamento spagnolo e candidata alla presidenza delle regionali in Andalusia lo scorso 19 giugno. Il suo più stretto collaboratore, Javier Cortés, deputato regionale per Vox in Andalusia, è conosciuto per aver pubblicato dichiarazioni pro-Franco sui social. C’era anche lui ad accogliere la capa di FdI, il 10 ottobre 2021, a Viva 21. Lì Vox presentava l’ agenda politica “Agenda Espana”. La data dell’evento forse non è casuale. Due giorni dopo, il 12 ottobre, in Spagna è la Fiesta della Hispanidad. Durante il franchismo si chiamava “Dìa de la Raza”, “Il giorno della razza”.

Meloni, Abascal, Buxadé, Marion Maréchal, Orbàn. Tutti nomi che “si tengono”. Tutti politici passati alla CPAC, la conferenza dei conservatori provenienti da tutti gli Stati Uniti e dal mondo (la prima edizione europea è stata organizzata a Budapest da Orban lo scorso maggio). Nomi che ritornano e che si ritrovano. Pure in Italia. Questi stessi politici sono stati invitati alla conferenza intitolata «God, Honor, Country: President Ronald Reagan, Pope John Paul II, and the Freedom of Nations—A National Conservatism Conference», organizzata a Roma nel febbraio del 2020 dalla Fondazione Edmund Burke. La figura cardine della fondazione è il filosofo israeliano Yarom Hazony, presidente a sua volta dell’Istituto Herzl. Hazony è autore del libro “Le virtù del nazionalismo”, è un sionista vicino a Netanyhau. Alla conferenza romana c’erano l’immancabile Francesco Giubilei, lo storico sovranista Marco Gervasoni (indagato per vilipendio al Capo dello Stato) e il filosofo polacco Ryszard Legutko: uomo chiave del PiS a Bruxelles. Legutko è abitualmente nominato nel pantheon degli intellettuali europei da Meloni.

FORZA MARINE

Marine Le Pen è amica e alleata di Matteo Salvini, è vero. Ma con Giorgia Meloni non si sono mai respinte, diciamo. Non politicamente, almeno. Gennaio 2015: la leader di Rassemblement National (allora si chiamava ancora Front National) è ospite in un talk show su La7. Con lei “lady Giorgia”. «Conosco Meloni, ma non ho ancora ballato con lei..», dice Le Pen (il riferimento è al famoso ballo in discoteca con Salvini). Poi, riferito a Meloni, aggiunge: «Questi giovani della destra italiana? Hanno fatto cadere molti tabù, ed è sempre molto positivo, dimostrano coraggio, una buona espressione di pensiero, e si collocano in una corrente di pensiero unica, e quindi meritano attenzione e rispetto». Meloni gongola. E da allora – sono passati sette anni – fa strada. I complimenti e i sostegni reciproci, tra le due, non sono mai mancati. Era il 30 settembre 2014. Elezioni francesi. Scrive Meloni in un post: «Grande soddisfazione per la notizia dei seggi conquistati per la prima volta dal Front National alla Camera Alta francese: la destra ha ripreso il controllo del Senato transalpino. Vogliamo rafforzare il già buon rapporto che abbiamo con Marine Le Pen per combattere insieme la grande finanza e la burocrazia, in Europa e in Italia. Siamo con quei movimenti che fondano la propria azione su un principio fondamentale: la politica la fanno i cittadini

». Tre anni dopo: 23 aprile 2017. Altro giro di urne Oltralpe.

Foto di Meloni con Marine sotto il simbolo di FdI e la scritta “Difendiamo l’Italia”: «Forza Le Pen contro le grandi ammucchiate e l’establishment. In Francia, a due ore dalla chiusura dei seggi, è già stato annunciato l’inciucione a sostegno di Macron. Contro le grandi ammucchiate stile PPE-PSE, io sto con la Le Pen. Con il popolo, contro l’establishment. Forza Marine».

Che FdI e il vecchio Front National avessero lo stesso simbolo (la fiamma tricolore, il blu al post del verde per i francesi), la stessa ispirazione in continuità con la storia rappresentata da quella fiamma, è noto. Poi nella famiglia del patriarca Jean-Marie si è compiuta la scissione politica. Marion Maréchal oggi è la vice di Zemmour. Ed è la compagna dell’eurodeputato Vincenzo Sofo, uno degli uomini di fiducia di Giorgia Meloni in Europa. Il 25 novembre 2016 Marion è stata ospite a Firenze dell’incontro “Una Nuova Europa possibile”. Evento organizzato da Azione Universitaria (l’associazione studentesca di FdI) in collaborazione con FdI e Lega. Il regista dell’evento? Vincenzo Sofo, “monsieur Le Pen”. Spagna, Francia, Ungheria. Una linea all’apparenza non geometrica. Eppure tutto si tiene.

Mancano pochi giorni alle elezioni politiche del 4 marzo 2018, quelle che sanciranno la nascita del Conte I, primo governo gialloverde. La campagna è stata dura ma è praticamente conclusa, i giochi sono fatti. E tuttavia, la mattina del primo marzo le agenzie stampa battono lunghe dichiarazioni della leader di Fdi. Non sull’Italia e sull’imminente apertura delle urne, ma sull’Ungheria. Giorgia Meloni è appena tornata a Roma dal viaggio a Budapest dove ha incontrato di persona il premier Viktor Orbán, suo alter ego politico, il modello a cui lei da un paio d’anni almeno dichiara esplicitamente di ispirarsi. C’è anche Adolfo Urso, in Ungheria. La riunione si è tenuta nella sala degli stucchi del meraviglioso Parlamento ungherese e Meloni l’ha pubblicizzata con diversi selfie. «Tra patrioti europei ci si intende subito alla grande», scrive in un post con vista su Danubio. Quella per Orbán non è semplice stima politica: è fascinazione. Tanto che a Pietro Senaldi di

Libero

consegna con un’intervista una sorta di manifesto programmatico in attesa di quel giorno in cui, prima o poi, siederà alla poltrona di Palazzo Chigi.

«Dall’Ungheria mi piacerebbe importare la tassazione fissa al 15 per cento con esenzione totale per chi ha tre figli, gli asili nido gratis, il 5 per cento del Pil investito sulla famiglia, che è il vero nodo con cui si risolve il problema demografico, i muri all’immigrazione clandestina, la difesa dell’identità cristiana e le super tasse a banche e speculatori, con i soldi reinvestiti in welfare». E, per chiarire ancora meglio: «Abbiamo iniziato un rapporto (con Orbán e il suo partito Fidesz di cui è padre e padrone assoluto,

ndr )

che continuerà quando saremo anche noi al governo. Vorrei che l’Italia collaborasse coi paesi del gruppo di Visegrad - Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia - che dal 1993 si adoperano per salvaguardare gli interessi nazionali dal pensiero unico e dall’omologazione che Bruxelles cerca di imporci». Alla tornata elettorale del 2018, Fdi si ferma al 4,35 per cento dei voti. Quattro anni dopo, i sondaggi dicono che Fdi ne potrà prendere sei volte di più. Rileggere l’intervista a Libero aiuta a capire dove punterà la prua il prossimo governo italiano, se - come sembra - il centrodestra vincerà.

L’EUROPA DEI MURI

Fino al 2015 Meloni non era sembrata particolarmente attratta dalla “democrazia illiberale” (il copyright è di Orbán) che Fidesz e il suo leader hanno instaurato in Ungheria. È la crisi delle migrazioni il fiammifero ad accendere la passione, e il giorno è quando il premier decide di innalzare un muro nel cuore dell’Europa per arginare la rotta balcanica: 523 chilometri di filo spinato lungo il confine con la Serbia e la Croazia. Sulla pagina Facebook di Meloni si rintraccia ancora il primo post di pura ammirazione dedicato a Orbàn. «Renzi invece di attaccarlo in modo scomposto dovrebbe imparare da lui come si difendono i confini della propria nazione. Vada in Ungheria a fare un corso di formazione e torni in Italia quando avrà imparato a fare il premier e non il tour operator di clandestini

La presidente di Fdi si produce quindi in una serie di acrobatiche difese d’ufficio della politica liberticida di Orbán, interpretandone i messaggi intrisi di xenofobia del premier ungherese (le ultime le ha pronunciate un mese fa in Romania: «Non vogliamo mescolarci con altre razze») allo scopo di edulcorarli. «Guardate che quando parla di bloccare i migranti, non intende i profughi (per definizione coloro che scappano da guerre e disastri e che hanno diritto all’asilo, ndr), intende i clandestini!», prova a sostenere il 23 giugno 2018 con un video online di due minuti. Il titolo era: «Per smontare tutta la disinformazione mediatica su Orban… mi aiutate a diffondere la verità?». Se di verità si vuol parlare, però, allora dovrebbe ammettere che in Ungheria non si fa alcun tipo di distinzione: i migranti vengono cacciati tutti, senza alcuna considerazione per i diritti.

LA SOPPRESSIONE DEL DIRITTO DI ASILO

Il capo di Fidesz da quasi una decina di anni calpesta diritti umani e leggi dell’Unione Europea sull’immigrazione. «Il governo non ha pietà, questo è il Paese in cui il diritto all’asilo è stato cancellato e dove si rischia un anno di carcere se distribuisci volantini con le istruzioni per fare la domanda di protezione». András Léderer è il direttore del Comitato Helsinki per la tutela dei rifugiati. La sede è al secondo piano di un palazzo che affaccia su via Dohany, centro di Budapest, non lontano dalla sinagoga. Impresa ardua ergersi a paladino umanitario quando hai un Parlamento monopolizzato da Fidesz (135 deputati su 199) che nel 2018 approva la legge “Stop Soros” che criminalizza l’assistenza, minacciando il carcere per chi aiuta i richiedenti asilo. La Corte di Giustizia dell’Ue ha stabilito che viola l’ordinamento, così come l’intensa prassi dei respingimenti.

«La polizia le chiama “scorte”», racconta il 36 enne direttore del Comitato Helsinki. «Se un agente trova sul territorio ungherese una persona priva di permesso di soggiorno, la porta al muro con la Serbia, la spinge oltre uno dei varchi e le dice: siediti sull’erba, qualcosa prima o poi succederà ». Dal 2016 al 28 luglio di quest’anno, le autorità hanno collezionato 197.392 “scorte”. Sono dei respingimenti perché, ragiona Léderer, i cacciati non sono «né fotografati, né identificati con le impronte digitali, né è concesso loro di fare domanda per l’asilo».

Ancora: la Corte di Giustizia ha sentenziato che tutto ciò è follia normativa, la Ue ha aperto diverse procedure di infrazione contro l’Ungheria, bloccando anche l’erogazione dei fondi del Recovery (7 miliardi). «Il partito popolare europeo vuole cacciare Orbàn per le sue posizioni di contrasto all’immigrazione illegale e per la sua battaglia contro lo speculatore Soros», arriva in sostegno Meloni, praticamente l’unica nel Parlamento italiano a votare contro le sanzioni. «Nel nostro gruppo europeo dell’Ecr, quello dei sovranisti e conservatori, queste battaglie sono delle medaglie, non delle colpe». (8 marzo 2019)

STESSE PAROLE D’ORDINE: DIO, PATRIA, FAMIGLIA

Fidesz, pur uscita dal Ppe, non è ancora entrata nel gruppo cui fa parte Fdi. Potrebbe essere solo questione di tempo, viste le affinità elettive su temi cardine. Il 19 e 20 maggio scorsi si è tenuta a Budapest, per la prima volta in Europa, la riunione del Cpac, Conservative Political Action Conference, la conferenza annuale a cui partecipano attivisti conservatori americani e del resto del mondo. Per l’Italia è stato invitato il milanese Vincenzo Sofo, parlamentare europeo di Fdi di cui si è già detto sopra: un tempo responsabile giovanile de La Destra-Fiamma Tricolore di Francesco Storace e fidanzato di Marion Maréchal-Le Pen, la nipote della leader di Rassemblement National. «Il nostro compito è quello di essere ricostruttori del ruolo centrale della famiglia come nucleo fondante della società», scrive su twitter, sintetizzando il suo intervento alla Conferenza. Ovviamente per lui esiste solo la famiglia tradizionale. «Essere ricostruttori del tessuto economico locale distrutto dalla concorrenza extracomunitaria, di un rapporto con la nostra storia e la nostra identità. Di un rapporto complementare con la nostra Chiesa. Di un sentimento patriottico». Sofo, nel 2021, ha incontrato personalmente Orbàn e la sua ministra per la Famiglia Katalin Novak. «Capisco perché le sinistre e l’establishment Ue abbiano così voglia di sbarazzarsene», sentenzia dopo qualche ora spesa a Budapest. «Quello lgbt è solo un pretesto». Il pretesto, come lo definisce l’eurodeputato di Fratelli d’Italia, è in realtà la più profonda compressione di diritti per la comunità lgbtqi avvenuta in Europa in tempi recenti.

Nel 2019 il presidente del parlamento ungherese, Làszlò Kovér, dichiara che un omosessuale deve rendersi conto che sarà per sempre un cittadino di serie B, e aggiunge l’inaudito. «Sostiene che due persone dello stesso sesso che intendano adottare un figlio sono come pedofili», racconta Tamàs Dombos, 43 anni, ex ricercatore della Central European University (l’Ateneo progressista fondato da Soros e costretto a sloggiare a Vienna nel 2020 dopo la riforma dell’istruzione). Incontriamo Dombos nella sede della Hatter Society, la più grande organizzazione ungherese che combatte l’omofobia. È uno dei dirigenti. «Con la riforma costituzionale del 2020 Orbán fa inserire un testo che recita: “La madre è femmina, il padre è maschio”. Si stabilisce poi che i bambini hanno il diritto a crescere secondo il sesso in cui sono nati e secondo i valori cristiani. La mia opinione? A Orbán, in realtà, non gliene frega proprio niente, la sua è banalmente una strategia politica: lanciare temi divisivi sulle minoranze in modo da distrarre la gente dai veri problemi dell’Ungheria, che sono la crisi economica, il sistema sanitario al collasso e l’isolamento internazionale. Ha usato i migranti, poi i senza tetto e i rom. Ora tocca alla comunità lgbtq».

IL SODALIZIO DI ATREJU

Nel 2019 Orbán diviene il primo premier straniero a partecipare ad Atreju, l’annuale festa di Fdi che si tiene vicino al Colosseo. Seduta in prima fila, Meloni si spella le mani per il suo intervento, mentre la sala canta “Avanti ragazzi di Buda” (la canzone che ricorda la rivoluzione del 1956)e si produce in diverse standing ovation. Le lodi per il suo alter ego politico e per il modo in cui gestisce il Paese raggiunge livelli altissimi ma sono anche orbe: vedono solo una faccia della medaglia economica dell’Ungheria, esaltandone i successi nella crescita del Pil che nel 2019 tocca il 5 per cento («Un vero sovranista come Orbán ha realizzato una vera flat tax, e guardate i risultati…») ma dimenticandosi di citare anche quali conseguenze abbia portato un certo tipo di politica economica: il deficit di bilancio ungherese nel 2023 sforerà il 5 per cento del pil, l’inflazione è all’8 per cento in generale e al 14 per cento per i generi alimentari.

L’OMBRA NERA DI BANNON

Un filo rosso, anzi nero, tesse la trama ideologica di cotanti destri d’Europa. Sullo sfondo si scorge la sagoma del pregiudicato Steve Bannon, il falco dei repubblicani trumpisti della prima ora, colpevole di oltraggio al Congresso e a suo tempo già accolto come una star dai “patrioti” ad Atreju. Anche lui al tradizionale happaning. È il 24 settembre 2018. Arringa la folla, acclamato: «Da qui può partire la rivoluzione. Ecco perché tutti i media sono qui, per vedere ogni errore che il vostro governo commette». Fa niente se all’ex stratega di Trump sfugge che FdI è all’opposizione del governo Lega-M5S. Conta che Meloni aderisce al cartello sovranista “Movement” di Bannon. FdI viene paragonata alla destra repubblicana di Donald Trump. Apoteosi. L’ideologo si eclissa man mano che cade in disgrazia. Si muove ormai sottotraccia. Non scompare del tutto. E continua a tessere la sua trama soprattutto in questa Europa attraversata da sovranismi e destrismi di ogni sorta.

L’ALLARME DELLE CANCELLERIE

Se queste sono le premesse, se questi sono i sodalizi internazionali dell’aspirante futura premier, non si pone ma piuttosto si spalanca una domanda sul futuro del nostro Paese in Europa. Che ne sarà del suo ruolo di fondatore dell’Unione. Che posizione assumerà Roma a Bruxelles sugli snodi più delicati destinati a incidere sul destino delle generazioni che verranno. Pnrr e politiche migratorie sono i due allarmi più squillanti che stanno risuonando a Bruxelles e nelle cancellerie europee. In caso di vittoria della destra in Italia, quei due dossier si trasformerebbero velocemente in due bombe pronte ad esplodere nel nostro Paese e nell’Ue. È l’ombra che negli uffici dell’Unione si stende in attesa di un possibile approdo a Palazzo Chigi di Fratelli d’Italia, il partito guidato da Meloni, o della Lega di Matteo Salvini. Il capo leghista è già stato testato con il governo giallo-verde e la prova venne considerata letteralmente “terribile”. Basti pensare che da ministro degli interni, il leghista, ha partecipato ad un solo consiglio europeo. La leader di Fdi è invece accompagnata dalla fama della “post-fascista” che in Europa non è maiun buon viatico.

IL FEELING AGOGNATO COL PPE

Per questo sulla direttrice Bruxelles-Strasburgo, Meloni sta tentando da mesi e ancora di più lo farà da settembre in poi un’operazione che in parte è già riuscita a gennaio scorso, in occasione dell’elezione della nuova presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola: diventare l’alleato fedele del Ppe. Quanto meno fare da sponda alla grande famiglia centrista. E così accreditarsi in veste di para-moderata. Lo farà infilandosi in un sentiero strettissimo, lo stesso che segue in Italia: non rinnegare il passato e individuare un presente dell’«accettabilità». In questo caso non rompere le intese con l’autocrate ungherese Orbán o con l’estremista francese Le Pen e nello stesso tempo tessere una tela di rapporti con i popolari europei. Usarli come “lasciapassare” per entrare ed essere ammessi nella stanza dei bottoni. Contando sul fatto che il partito e il gruppo guidato al tedesco Manfred Weber ha deciso di utilizzare i Conservatori (di cui fanno parte Fratelli d’Italia) come grimaldello per ricattare e stringere in un angolo i Socialisti. E per conservare la supremazia numerica in occasione delle prossime elezioni europee del 2024. Anche perché il Ppe, che ha espresso Ursula von der Layen alla presidenza, ha un problema non da poco: non guida nessuno dei grandi Paesi dell’Unione. Certo questo schema sta iniziando a creare problemi dentro gli stessi popolari. In particolare quelli del Nord Europa. Perché nell’Ue le sottigliezze ampollose della politica italiana non vengono comprese né accettate: Fdi è semplicemente un partito le cui origini sono inequivocabilmente fasciste. E poi perché ci sono i fatti. I voti espressi nel Parlamento europeo. Quelli vengono considerati la provadel loro giudizio.

L’OSTRACISMO SUL PNRR

Nell’aula dell’Eurocamera nessuno ha dimenticato alcuni passaggi fondamentali. In particolare la circostanza che il partito di Meloni non ha mai – dicasi mai – votato a favore del Recovery Fund e del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Non lo ha fatto in Italia e nemmeno a Strasburgo. In cinque occasioni: 13 ottobre 2020, 15 dicembre 2020, 10 febbraio 2021, 24 marzo 2021 e 27 aprile 2021. Voti di astensione accompagnati da critiche asperrime nel merito del progetto, nei confronti dell’Ue e della moneta unica, l’Euro. A volte anche in compagnia della Lega. E quei voti pesano. Sono un macigno, per la Commissione e per gran parte dei leader del Consiglio europeo. Dove, alla fine, si decide spesso se e come aiutare un Paese in difficoltà. E una serie di punti interrogativi seminato da Commissione e Stati membri dell’Ue: Con queste premesse che fine farà il Pnrr? E che fine faranno gli altri circa 150 miliardi che Bruxelles dovrebbe erogare fino al 2026?

I CONFINI E LE MIGRAZIONI

Il discorso cambia di pochissimo sulla seconda emergenza europea: i migranti. Per il centrodestra è una sorta di parola magica in campagna elettorale. Blocchi navali, rimpatri, divieti. Tanti slogan. Ma, poi, dinanzi alle ricette concrete avanzate dall’Europa, il passo indietro è stato repentino. Tanti no. Come direbbe Totò, a prescindere. Preludio, forse, di quel che accadrebbe con Meloni premier e Salvini di nuovo al Viminale.

Questo e tanto altro fa del futuro una grande incognita tutta italiana. Un’ombra che si allunga sull’intero continente, sotto quella gigante M.


(2-Continua)

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