Se Merlo parla bene di Luigino, vuol solo darci l'idea del godimento infinito che lo pervade nel vedere tanto scempio addosso al Movimento. Se Merlo s'accanisce contro Fico, esaltando Luigino, vuol dire che il ministro degli Esteri è entrato ufficialmente nel Sistema, divenendone ingranaggio inamovibile, destinato all'inaffondabile ciclo che lo porterà a spaziare nei vasti meandri di quella politica divenuta lavoro, calamita di agii e privilegi. Se Merlo parla bene di Luigino, i problemi sono e restano di Luigino.
Il racconto
Il sopravvalutato e il sottovalutato nell’estate del vaffa
DI FRANCESCO MERLO
Torna il vaffa, ma della buona creanza, il vaffa di un sottovalutato a un sopravvalutato, un vaffa senza diavoli nascosti, un vaffa tutto napoletano, respinto senza neppure il classico “vacci tu”. E va detto subito che solo a prima vista sono divertenti gli ex squinternati d’assalto che ora si mandano a quel paese mordendosi la lingua. Qui il solo insulto forte e chiaro, che nel codice dei 5stelle equivale a infame cornuto e sbirro, l’ha lanciato Paola Taverna a Luigi Di Maio: «Sembri Renzi». Ma la porta d’uscita gliel’ha mostrata Roberto Fico, che nel 2017 ne subì la leadership imposta da Grillo per acclamazione. E tutti ricordiamo Fico in dolente afonia, agitarsi, ma senza dire neppure una parola, dietro il palco anticasta di Rimini dove gli fu persino impedito di salire: giorno verrà… Perciò ora Fico si vendica, si scarica e dice che «Di Maio non è contro Conte, ma contro tutto il Movimento »: tiè. Ma mentre lo dice nega di dirlo: «Non ne voglio parlare». Lo stile è quello del calcio dell’asino. Ma Di Maio, mimando l’eleganza, gli risponde con una nota in terza persona, che davvero si nega alla risposta: “Il ministro non replicherà a nessuno degli attacchi che sta ricevendo in queste ore. C’è un limite a tutto, ciononostante non si può indebolire il governo italiano davanti al mondo che ci osserva, in una fase così delicata”.
Ovviamente non è uno scontro tra apocalittici e integrati, ma tra integrato e integrato, entrambi con il problema del doppio mandato. Fico e Di Maio davvero si somigliano anche se non si pigliano, e il duello tra i due non ci sarà perché in nessun Paese del mondo, neppure nel “Venezuela di Pinochet” (che stava nell’atlante storico ridisegnato dal “Di Maio di prima”) un sopravvalutato accetta la sfida di un sottovalutato. Insomma, mai questo “Di Maio di dopo” promuoverebbe Fico ad avversario e dunque: “descansate niño” e riprenditi il guanto.
E però bisogna ammettere che sta diventando davvero epico il romanzo di formazione dell’outsider e brocchetto del populismo Luigi Di Maio, da commesso dello stadio San Paolo a ministro degli Esteri pulitino, perfettino e persino bravino del governo Draghi europeista e atlantista.
Perciò di nuovo ha sbagliato Fico a sfidarlo passeggiando per le strade di quella Napoli che li unisce mentre li divide. Fico infatti ci è nato mentre Di Maio, che è cresciuto a Pomigliano, non è neppure figlio della provincia, ma di quell’ enorme hinterland che per grandezza in Europa è secondo solo a quello di Barcellona. Di Maio ha dunque il narcisismo compensatorio della periferia, lo sforzo e il bisogno di strafare per poter fare. Fico invece pensa di essere lui Napoli, arruffato per i centri sociali che frequentava in jeans e maglietta come “il terrone” amato e cantato dagli Skiantos, non indumenti da compagno proletario, ma uno stile di vita, quale che sia il vestito che indossa. Pure con il cappottoblu di cachemire che lo impaccia quanto l’impaccia l’Istituzione, Fico è ancora il “compagno” arruffato di una volta, è vero, ma è anche Nino D’Angelo, il cui inno è “Nu jeans e ‘na maglietta” che è pure il titolo del suo film più di successo.
Il presidente Fico non si sposta più in autobus anticasta come negli esordi ed eccelle nei convenevoli, si inchina, scambia piccoli sorrisi dicircostanza. Ma, fedele alla sua natura, concede pochissime parole perché con la lingua si imbroglia – “il vaglio resta vagliato”, “non è vero che uso un’auto blu, è grigia” - e si infila le mani in tasca, che è la sua abitudine. “Machitofafà” lo chiamavano all’università di Trieste, dove si laureò - 110 e lode - con una tesi sui neomelodici napoletani, “la canzone popolare che non si può giudicare conil codice penale alla mano”. E dunque “come Hobsbawm vide la rivoluzione nei briganti”, così Fico la vide, prima ancora che in Grillo, in Nino D’Angelo (rieccolo) che appunto canta: “Ma chi to’ fa fa”.
Di Maio invece ha sempre avuto il look in contrasto ideologico con il grillismo e dunque anche con il se stesso di prima: lo studente fuori corso che sbagliava i congiuntivi era già l’unico nel Movimento - “l’ometto di Grillo” lo insolentiva De Luca con la cravatta, anche prima di esibire qualche bella compagna, di firmare anche lui un’autobiografia da infanzia di un capo, di chiedere scusa per gli eccessi del giustizialismo e perdono per essere stato il “Di Maio di prima”. E ci si può perdere nelle sue gaffe, sulle quali anche io ho così tanto scritto che davvero mi basterebbe ricopiarmi. A partire magari da quel viaggio in Francia e contro la Francia quando insieme con Di Battista riduceva a parodia la politica estera. Di Maio, che era vicepresidente del Consiglio, ministro e capopartito, si offriva infatti come una Marianna di sostegno alla violenza redentrice dei gilet gialli: pugni ai poliziotti e ruspe contro la porta del ministero. L’idea scema era quella del “qui casca il gallo”, con la denunzia del colonialismo francese settant’anni dopo la sua fine, mentre Giorgia Meloni, nel suo più fulgido momento di reginetta di Coattonia, gridava in tv che Macron sfruttava i bambini africani per arricchirsi.
Le gaffe e le fragilità di Fico sono diverse dalle bêtises accumulate da Di Maio, Di Battista e dai vari Toninelli. Fico, sia nel bene che male, è rimasto un grillino piccolo piccolo che raramente è stato fuori misura. Di sicuro sballò quando si lanciò in una sgangherata, calunniosa offensiva contro Umberto Veronesi che Beppe Grillo chiama Cancronesi: «Riceve soldi da una multinazionale che costruisce termovalorizzatori. Vergogna!». È vero che riscorrendole oggi tutte le storie di questi grillini hanno la furbizia ruspante del guaglioncello “io speriamo che me la cavo”, ma solo Di Maio è ormai arrivato alla prova-miracolo: una prova dura, acre, ammorbante, velenosa, per vincere la quale dovrebbe appartenere – ma chi può escluderlo? – ai fenomeni della politica italiana. In questa decadenza dei 5 stelle, che non somiglia certo a un’altra caduta degli dei, come furono la morte della Dc, del Pci e del craxismo, come del resto anche quella del fascismo dopo il fascismo, del Movimento sociale di Almirante e Fini, in questo finale di partita di un Movimento 5 stelle slabbrato come un condominio, sono in troppi a sognare un duellissimo: Fico sogna di battere Di Maio, Di Maio sogna di battere Conte, e Conte sogna di battere… Draghi.
Fico e Di Maio alla sfida finale: entrambi alle prese con il problema del doppio mandato, si somigliano ma non si pigliano.
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