Sì, per me è un genio, uno degli ultimi geni che le Arti ancora ci concedono, prima di ritirarlo anch'egli nel giusto luogo, l'olimpo degli dei.
Woody Allen ha pubblicato un libro di racconti, Zero Gravity.
Ne posto uno a caso, sperando non s'incazzi oltremodo. Non per guadagno per manifestare la sua genialità, ce ne fosse ancora bisogno!
Park Avenue, piano alto. Vendi o buttati
di Woody Allen - Zero Gravity
“So quello che ci vuole,” dissi col fiato in gola mentre la luce della mia vita varcava la soglia del portone carica di sacchetti di Hermès, con le carte di credito ancora surriscaldate. “Prendiamo un taxi e ci facciamo portare da Peter Luger a strafogarci di carne wagyu. È da tutto il giorno che ho l’acquolina in bocca al pensiero di quei controfiletti così teneri, per non parlare delle cipolline e delle patatine... E se troviamo intasato il ponte di Williamsburg, possiamo scendere e fare il resto della strada di corsa.” “Controlla l’adrenalina,” frenò l’amata immortale. “In frigo ci aspettano due razze fresche che ho comprato in centro. Pensavo di farle coi capperi e di aprire una di quelle bottiglie che abbiamo preso su eBay.” Risolta la questione con tale ukase, iniziò a confabulare di un banchetto basato su ricette di famiglia che comprendevano una salsa molto simile alla mucillagine. “E non startene lì a bocca aperta,” abbaiò la signora della casa, rivolgendosi a me come se fossi una recluta appena arrivata in una caserma dei Marines. “Togli il pesce dalla carta, che io lo metto a bagno nel latte.” Rassegnato al fatto che il controfiletto e i suoi contorni sarebbero stati sublimati in un haiku di insopportabile concisione, cominciai a togliere quella specie di pipistrello marino dalle pagine del “Daily News” in cui era avvolto. E fu lì che caddero i miei occhi, ormai lacrimanti come Niobe, trovando una notizia imprevedibilmente interessante. A quanto pare era stata venduta la villa di Mike Tyson: una specie di reggia degna della Xanadu cantata da Coleridge. Vantava diciotto camere degli ospiti, utili – immaginai – per quelle occasioni in cui ti capitano in casa due squadre di baseball senza preavviso. I bagni erano trentotto – a quanto pare Tyson non gradiva bussare alla porta gridando: “Hai finito?” C’erano sette cucine, una cascata, un imbarcadero, una discoteca, una grande palestra e un’enorme sala cinematografica. La richiesta iniziale era di ventun milioni di banconote del governo statunitense, scesa poi a un più sobrio ammontare di quattro milioni: o il compratore era un ipnotizzatore provetto, o al posto mancava qualcosa di essenziale, come un silo missilistico.
La notizia, come una madeleine, mi riportò a una piccola transazione immobiliare in cui ero stato coinvolto un paio di anni prima, e che non raggiunse tali vette iperboliche, anche se vi fu un momento in cui la mia pressione sanguigna rischiò di far scattare il sistema antincendio. Mia moglie aveva deciso che dovevamo mettere sul mercato il nostro appartamento perché avevamo trovato una casa singola recentemente ristrutturata nello stile da Inquisizione spagnola che tanto adorava. Se avessimo piazzato il nostro classico sei locali in Park Avenue, con un po’ di finanza creativa saremmo riusciti a fare uno switch quasi alla pari, pensava la mia dolce metà, dopo una serie di calcoli che chiamavano in causa la costante di Planck. “Secondo quelle dell’agenzia, casa nostra vale una bella sommetta,” trillò la mia sposa. “Per l’altra casa chiedono otto milioni. Se cominciamo a saltare i pranzi, sospendiamo l’assicurazione sanitaria e incassiamo i libretti di risparmio delle bambine, probabilmente riusciamo a trovare i soldi dell’anticipo.” Le mie dita strinsero convulsamente l’attizzatoio mentre gli occhi della mia consorte scintillavano come quelli del Mahdi. Era fuor di dubbio che avesse già deciso e, con l’espressione di Hitler che si sfregava le mani osservando la cartina della Polonia, tanto brigò che alla fine acconsentii di offrire il nostro spazioso nido d’aquila a chiunque avesse da parte dieci milioni di conchiglie. Prima, però, avvertii le due arpie dell’agenzia, la signorina Mako e la signora Greatwhite: “Ricordate che non posso neanche pensare di comprare la casa nuova prima di vendere quella vecchia.” “Certo, Ignatz,” disse l’agente con la pinna dorsale più grande, affilandosi la terza fila di denti con una lima del Brico. “Non mi chiamo Ignatz,” reagii alla sua confidenzialità non richiesta. “Scusi, ma lei ha una faccia da Ignatz,” ribatté facendo l’occhiolino alla sua socia. “Lo metteremo in vendita a quattro milioni. A scendere c’è sempre tempo.” “Quattro milioni?” strillai. “Ma se ne vale almeno otto!” Mako mi squadrò con l’occhio subdolo di un anatomopatologo. “Lei lasci che se ne occupino delle esperte e pensi a risolvere il suo cubo di Rubik. In men che non si dica si ritroverà con abbastanza cash da migrare nel suo nuovo nido, e vedrà che le avanzeranno abbastanza dobloni da metterci pure l’acqua corrente.” Quando avevo calcolato il budget non avevo previsto molti margini, ma presto divenne chiaro che, per coprire ogni imprevisto, tutti facevano affidamento sulla vendita dei miei reni al mercato nero. La signora Barracudnick, l’agente immobiliare del palazzetto di arenaria, spiegò a mia moglie che, essendoci molti altri interessati a quella chicca vintage, sarebbe stato prudente fare subito un’offerta, e suggerì una cifra che per un qualunque sceicco arabo sarebbe stata l’equivalente di una mancetta.
Decisi di non cedere, ma col passare delle settimane nessun potenziale acquirente veniva a vedere il nostro attico e mia moglie cominciò ad aumentare la dose di Xanax. “Sarà meglio abbassare la richiesta,” mi disse la signora Greatwhite. “Secondo la signorina Mako abbiamo sbagliato a partire da un prezzo così poco realistico.” “Quattro milioni sarebbe un prezzo poco realistico? Ma se dieci anni fa gliene abbiamo dati due?” spiegai. “Due milioni per il Palazzo dei Rospi?” disse la signora Greatwhite, finendo di sorseggiare il mio Jim Beam. “Non è che ha fumato qualcosa?” Avendo capito, dopo molti anni, le motivazioni di Jack lo Squartatore, calai la richiesta a tre milioni, e fui rinfrancato da concreti segnali di interesse: una coppia russa, convinta che il prezzo fosse di trecento dollari; e un tizio che lavorava come fenomeno da baraccone per il circo dei Ringling Brothers e che, mi venne detto, non avrebbe mai passato l’esame del consiglio di condominio. Nel frattempo la Barracudnick mi informò che il palazzetto vintage piaceva molto, e una celebrità si era fatta avanti. “Si tratta niente meno che di Josh Airhead, l’attore. Si vocifera che voglia portare all’altare Jennifer Moped. Se ci tiene davvero a questa casa,” ghignò sadicamente la Barracudnick, “alzerei la sua offerta.” “Ma abbiamo ancora sul groppone la casa vecchia,” strillai come Madama Butterfly. “Si faccia fare un prestito ponte,” propose l’agente immobiliare, con un sorriso che Faust avrebbe riconosciuto. “Le posso consigliare una finanziaria. Giusto per tirare avanti finché non si sbarazza del suo elefante bianco.” “Elefante bianco? Prestito ponte? Se solo riuscissimo a prendere due milioni e mezzo...” strisciai. “O anche quello che abbiamo pagato,” disse la mia dolce metà, già tentata di donare l’appartamento alla municipalità di New York come centro per il parto, guadagnandoci una detrazione fiscale. Con spirito missionario, il signor Vigorish, della finanziaria Trangugia & Divora, estrasse la siringa dal mio braccio e sfregò sul foro un tampone imbevuto d’alcol. “Tenga premuto,” disse. “Così non le viene un ematoma. Le ho preso solo qualche litro, a mo’ di acconto.” “Ma non è un po’ azzardato il diciannove per cento?” borbottai. “Soprattutto con questi chiari di luna...” “Ehi, gli ebrei del New Jersey chiedono il venticinque per cento, e ti fracassano le rotule se sei in ritardo con le rate. Noi ci limitiamo a requisire la garanzia.” Lieto di essere uscito intero da una difficile trattativa e fiero del mio netto rifiuto di usare le mie figlie a garanzia del prestito, firmai il contratto mentre gli occhi da lupo di Vigorish mi guardavano come se sotto la mia giacca di tweed Ralph Lauren ci fosse un piatto di costolette d’agnello. “Adesso abbiamo due case,” annunciai a mia moglie con voce belante, mentre cercavo la capsula di cianuro che il mio commercialista mi aveva dato nel caso gli eventi avessero preso una brutta piega.
“Sono sicura che usciremo da questa impasse,” mi consolò la signorina Mako. “Può darsi che bisogni abbassare ancora la richiesta e che ci debba mettere dentro anche i mobili.” Mentre già immaginavo di passare la vecchiaia sul marciapiedi, l’abbassai ulteriormente. E una serie di rompiscatole cavillosi cominciarono a esaminare ogni modanatura e asse del parquet, prima di tornare a mescolarsi agli otto milioni di loro simili che avevano una storia da raccontare nella città nuda. Poi, un giorno, mentre mi informavo a un banco dei pegni quanto potessi ricavare dal mio pacemaker, le due carnivore mi presentarono un cinquantenne dall’aria elegante. Si chiamava Nestor Fastbuck, aveva l’energia imprenditoriale di Mike Todd e l’aspetto piacente di Cesar Romero. Il suo interesse per il nostro appartamento sembrava sincero, dato che tornò più volte con il suo architetto e il suo arredatore. Li sentivo confabulare di pareti da abbattere, nuovi bagni, locali palestra e cantine. Ogni tanto mi lanciavano un’occhiata e coglievo frasi come “Incredibile come viva certa gente... qui ci sarebbe pane per Margaret Mead... ovviamente, prima di toccare qualunque cosa, andrà fatta una disinfestazione...” Lasciavo correre invece di incenerire il trio con una delle mie battute al vetriolo. Dopo tutto Fastbuck era un ricco ed elegante banchiere, dalle credenziali impeccabili. In breve, un condomino ideale. Il consiglio di condominio, che di solito vagliava gli aspiranti proprietari con una compassione degna del dottor Mengele, non avrebbe trovato nulla da obiettare in lui. Immaginai addirittura che lui e il nostro presidente, L.L. Beanbag, facessero parte della stessa società segreta di Yale. E le sue maniere affabili avrebbero fatto sciogliere gli altri membri del consiglio, solitamente rigidi giacobiti. La signora Westnile del 10A, Attila Weinerib dell’altro attico e Sam Anatra Zoppa – il nostro nativo americano – avrebbero accolto a braccia aperte un vicino come Fastbuck, che si presentava stracolmo di azioni blue chip e vantava referenze firmate da gente come Bill Gates e Kofi Annan. Anche se individui più sagaci della signorina Mako e della signora Greatwhite avrebbero fiutato puzza di bruciato in referenze come: “Nestor Fastbuck è un tipo a posto che non beve, non gioca e non tromba la prima che passa. Firmato, Reinhold Niebuhr.” Ma, ahimè, la prospettiva di una commissione sostanziosa offuscò il loro discernimento. Per quanto probabilmente esagerato nel successivo resoconto, l’incontro tra Fastbuck e gli altri condomini fu qualcosa di inimmaginabile. Sembrò cominciare sotto i migliori auspici, nell’appartamento di Harvey Nectar. Fastbuck prese atto del divieto di tenere animali domestici, giurò di non organizzare feste rumorose e di preferire una vita monastica utilizzando una sola donna di servizio di nome Edema. Herman Borealis, del 5D, si era laureato a Harvard ed ebbe qualcosa da ridire su chi si era laureato a Yale, ma il dissidio si compose quando si scoprì che entrambi indossavano biancheria intima Zimmerli. Le cose si stavano concludendo a tarallucci e vino quando un frastuono arrivò dal corridoio. “Aprite, è l’FBI!” tuonò una voce, mentre un ariete scardinava la porta. Fastbuck rimase paralizzato di fronte all’irruzione di una falange di federali. “Eccolo! Prendetelo!” gridò un agente che indossava un giubbotto antiproiettile. “E state attenti, è ricercato per rapina a mano armata!” Fastbuck cercò di scavalcare il pianoforte, travolgendo Sam Anatra Zoppa e facendogli cadere
il parrucchino da mohicano. Vero o no, pare che durante la cattura vennero esplosi dei colpi di arma da fuoco, e alcuni proiettili vaganti si conficcarono nel quadro dove la moglie di Nectar, Bea, era ritratta in veste di Era. Fu solo sei mesi dopo che vendetti il mio appartamento a una famiglia di quaccheri per una cifra che copre a stento il mio prestito ponte, un ponte da cui spesso ho pensato di buttarmi.
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