L’ultima nemesi di Salvini: Chi di maglietta ferisce…
DI DANIELA RANIERI
Per quanto in molti lo sperassero, era difficile credere che la parabola di Matteo Salvini sarebbe finita un giorno con un tonfo così grottesco, così tondo e perfetto, in ossequio a tutti i codici della commedia all’italiana (gli mancavano il colbacco e il caciocavallo appeso in spalla), davanti alla stazione di Przemysl, cittadina polacca ai confini con l’Ucraina, a 10 chilometri dai carrarmati di Putin. Già strideva il contrasto tra la sua figura – sempre abborracciata, mai autorevole – e l’atroce frangente storico; tra la missione che si era dato, “portare pace e salvare donne e bambini”, e il suo curriculum politico di seminatore d’odio, finito a servire l’acqua nel governo dei banchieri; ma il rifiuto del sindaco Wojciech Bakun di riceverlo, con la trovata drammaturgicamente perfetta di regalargli una maglietta con sopra stampata la faccia di Putin, ha fatto compiere uno scatto di chiusura ermetica alla sua vicenda. Il video dell’evento è per lui, bulimico di selfie, semplicemente micidiale.
La t-shirt, insieme alla felpa, è stata uno strumento della sua propaganda: superficie di messaggi basici per divoratori d’immagini social (“Basta uro”), usata per geolocalizzarsi con captatio benevolentiae delle pro-loco (“Bergamo”, “Gioia Tauro”), esternare ideologie e programmi (“Padania is not Italy”), additare nemici (“Basta Fornero”), esprimere solidarietà a tabaccai sparatori, lisciarsi polizia, “marò” e CasaPound, la maglietta è stata il manifesto elettorale di Salvini, che si è fatto muro, supporto del suo stesso messaggio per i collegamenti Tv. Quella tirata fuori con gesto teatrale dal sindaco polacco (pure lui di destra, del movimento xenofobo Kukiz’15), era un fac-simile della maglietta che Salvini indossò nel 2014 a Mosca, sulla Piazza Rossa, naturalmente a insaputa dello stesso Putin, facendosi immortalare quale turista-groupie dell’autocrate; e poi nel 2015, al Parlamento europeo, in chiave anti-Ue e anti-Merkel. Figuriamoci se Salvini studiava e aveva un’idea degli equilibri geopolitici: la smargiassata era a esclusivo beneficio degli italiani. La Lega, già padana, era adesso un movimento nazionalista, cellula del sovranismo europeo, affine all’America “great again” di Trump e adoratrice di Putin, cacciatore di tigri e “uomo forte” (da sempre, l’ultimo faro dei codardi).
La propaganda leghista consisteva nell’esposizione fisica e persino fisiologica del “Capitano”, impegnato nello sforzo diuturno di far parlare di sé, sfidare il buon senso e il buon gusto, dire sempre la cosa meno assennata, meno decente, in una regressione infantile di tutti i codici, “dacché i deficienti si innamorano dei modelli deficientemente ritenuti valevoli quali modelli” (Gadda). E arrivava fino a sporcare tutto ciò che è sacro, ferme restando le esibizioni esteriori di devozione alla Madonna, i baci a rosari, crocefissi e salamelle (uno degli emissari della Lega al confine ucraino è quel Grimoldi che nel 2010 fece un’interrogazione parlamentare per censurare nelle scuole i passi del diario di Anna Frank in cui la ragazzina ebrea morta a Bergen-Belsen descriveva “le sue parti intime”, troppo “dettagliati” per non “suscitare turbamento in bambini di scuola elementare”).
Il ministro dei Decreti sicurezza alternava bonomia paterna e odio; odio, beninteso, sempre rivolto ai deboli, giammai ai forti: ha fatto credere al ceto medio che se impoveriva la colpa era dei senza ceto; che i ladri erano i “migranti con l’iPad”, non i commercialisti dei partiti tra cui il suo, che ha rubato 49 milioni di euro allo Stato cioè a tutti, pure ai suoi elettori, intortati con la mitologia dei due sopraffattori a tenaglia, l’Europa e l’Africa, mentre la Russia di Putin – che già occupava la Crimea, toglieva libertà al suo popolo, eliminava giornalisti e dissidenti – era il Paese di Bengodi.
È stato un politico di destra a sbugiardarlo davanti al mondo come impostore (per soprammercato comico-kitsch, stavolta l’indumento parlante era un giubbotto decorato con gli sponsor della spedizione: quando si dice il fiuto per gli affari); uno per cui il senso della patria e dell’onore si esprime evidentemente anche rifiutando di ricevere un opportunista straniero che va a farsi propaganda sulla sofferenza di un popolo amico (“È insolente da parte sua”). Dopo l’auto-combustione del Papeete e il negazionismo della Covid, la fine di Salvini nella stazioncina polacca era un appuntamento col destino (mai sottovalutare gli scherzi del destino nelle stazioni in terra russa o quasi: Anna Karenina vi muore, e anche Tolstoj morì in una stazione, quella di Astàpovo, il cui orologio segna ancora oggi le 6:05), altro che, come dicono i suoi difensori con anacronismo struggente, “un agguato della sinistra e dei centri sociali”. Salvini non ha mai avuto onore, non ha mai avuto politica; ha avuto solo comunicazione, e di comunicazione politicamente perisce.
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