Una cena da Noma, il miglior ristorante al mondo
di Laura Taccari
Per il Noma, grazie». Dallo specchietto retrovisore noto che le pupille del tassista si accendono, come destate da un prolungato torpore. Mi fissa per alcuni secondi, quindi scivola in un’espressione di approvazione. Nell’abitacolo scende un’aurea solenne, che subito il mio accompagnatore sdrammatizza. «Non staremo esagerando? In fondo stiamo andando in un ristorante!». E io, forte dell’empatia dimostrata dal driver, ribatto: «No, questo non è un semplice ristorante».
Alcune portate del menù invernale del Noma in alto l’anatra selvatica, uno dei main course del menu. Ambientato in un ex deposito di bombe, porta la firma dello studio danese di Bjarke Ingels. Foto di Ditte Isager
È iniziato così il mio viaggio nella capitale danese verso l’olimpo della gastronomia terrestre. Dall’hotel Villa Copenhagen sono undici minuti, una virgola lunga poco più di cinque chilometri in direzione sud est. Percorriamo una delle arterie della città, Andersen Boulevard, la seguiamo anche quando salta sul canale, diventa ponte, approda nell’isola di Amager e risale verso la roccaforte hippie della città, Christiania. I palazzi a mattoncini lasciano spazio a scampoli di prateria incolta. «Amo questo quartiere», mi racconterà poi lo chef quarantaquattrenne René Redzepi. «È talmente variegato, è il posto migliore per fare una passeggiata, siamo tutti vicini di casa». Avvisto una piccola folla che si muove sul ciglio della strada e alcune luci colorate che illuminano la notte scandinava.
Uno dei dessert: midollo di renna caramellato. Foto di Ditte Isager
Ci siamo. Saluto con sincera gratitudine e scendo. Mi affido invano agli effetti calmanti del tè rooibos, aromatizzato con sciroppo di mela cotogna, nell’abbraccio di una serra abitata da nasturzi e da una comitiva di italiani ciarlieri. Parlano serenamente del più e del meno, mentre io cerco di processare ogni sfumatura di verde e terracotta. Sì, forse sto esagerando ma no, questo non è un ristorante.
Cosa mi ha condotto a volare fino a questo vecchio deposito di bombe lambito da onde cobalto? Non tanto la terza stella Michelin che il Noma si è appena aggiudicato, né tanto meno il titolo di miglior ristorante al mondo, secondo The World’s 50 Best Restaurants, dopo tutto è la quinta volta che lo chef è chiamato a ritirare questo premio. A spingermi fin qui sono stati gli sguardi di chi ha vissuto quest’esperienza prima di me, la loro rassegnazione per non essere capaci di trovare le parole giuste per descriverla. «Dovresti andarci almeno una volta nella vita», finivano per ripetere tutti. E così, eccomi qui, a percorrere il giardino disegnato dal paesaggista olandese Piet Oudolf, a infilarmi sotto al tunnel tempestato di corna e a superare serre illuminate, dove alcuni ragazzi longilinei si adoperano tra i banconi con l’aria di chi custodisce segreti. Scopriremo poi, durante il tour post cenam, che lì vicino René sperimenta e mette alla prova i piatti: la chiamano la test-room, a metà strada tra laboratorio scientifico e ufficio stile con tanto di moodboard appesi alle pareti.
Toc-toc e la porta si apre su una cabina nel bosco, progettata dallo studio danese di Bjarke Ingels. Mi accoglie una tribù di giovani adulti in T-shirt blu e grembiule antracite: «Welcome!». Mi sento un’eletta, tra questi milleduecento metri quadrati, compreso il regno dedicato alla fermentazione, dove ogni giorno si sperimentano tecniche innovative e si coniano nuovi esemplari di garum vegetale (un condimento originariamente a base di pesce, inventato dagli antichi romani).
Quando René arriva al nostro tavolo, anche lui in T-shirt blu e grembiule antracite, ci chiede: «Come va a Milano?». Ha il volto di un bambino e il carisma di una rockstar. «Siete già stati al Loste café? È di Stefano, è stato a capo della nostra pasticceria per molti anni, merita un grande successo. Buona cena!». Estraggo un cucchiaio di cervello di renna dal teschio, è la prima delle diciannove portate del menù della stagione invernale, il cui nome, Game and Forest (da 380 euro), evoca sì derive selvatiche ma non lascia immaginare gli estremismi culinari che ci attendono. Come il Yellow Beet Sashimi, ventaglio di barbabietola dorata, arrostita con olio di rosa, prugna, accompagnata con pesto di formiche, il Bear dumping, babà salato con fondo d’orso o il Duck Brain, sempre servito direttamente dalla testa dell’animale. E ancora, pollini, veli di lievito madre, midolli di renna caramellato, petali di origano messicano (specie dalle foglie carnose e croccanti di cui lo chef è fan). La degustazione di vini è ammirevole, ma il pairing di succhi svela miscellanee di sapori estasianti (il mio preferito è a base di angelica, betulla, mirtilli chiari). Tutto viene impiattato tra i fuochi a vista, sotto la meticolosa regia del capo chef. La cucina è divisa in base alla temperatura dei cibi: freddo, tiepido, caldo e la pasticceria è un mondo a parte. È una coreografia ipnotica, una danza di sguardi e arti. Più proseguo nella sfilata di sapori mai assaporati, più comprendo che a nutrirmi non sono tanto le porzioni di proteine eccentriche e vegetali mai udite.
Al Noma ci si arricchisce di idee, di gesti, di valore umano. Di quel ritmo che scandisce l’opera e che finisce per entrarti dentro. Ogni portata è un rituale, le pietanze sono adagiate su nidi, ramage di foresta e ceramiche artigianali avant-garde. Non vengono solo servite ma raccontate, spesso dagli stessi cuochi e spesso da ragazzi arrivati dall’Italia (paese verso cui René nutre un’empatia peculiare). Capita che si debba usare le mani, leccare il cucchiaino, sgranocchiare una zampetta. È come andare avanti e indietro sui binari del tempo: in un momento ti senti agli esordi dell’antropogenesi e subito dopo, a bordo di una navicella, visitando galassie inesplorate dell’arte culinaria. Più che una cena, è un viaggio sentimentale che conduce dritti tra le meraviglie di un altro mangiare, sovversivo, immaginifico, illuminante. «Sì, almeno una volta nella vita».
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