Quel gommone che sembra un presepe
di Paolo Di Paolo
Un Natale gelido, un Natale in solitudine, un Natale in lutto, un Natale diverso da tutti gli altri, un Natale lontano dalle latitudini in cui sembra Natale.
Riesco a immaginare molti Natali, a figurarmi giorni di festa in cui la festa è solo un segno rosso sul calendario. Però un Natale in mare aperto non riesco a immaginarlo; e forse è perfino stupido dire Natale, come se il 24 e il 25 dicembre non fossero due giorni come altri – solo più disperati, se oltretutto preghi un altro Dio, e li passi su un gommone che imbarca acqua del Mediterraneo, al largo di Lampedusa. La mia immaginazione non può spingersi fin lì. È un limite oggettivo, che va ammesso.
Supporre di potere cogliere realmente la differenza – per certi versi incolpevole, e in ogni caso feroce – fra il mio 25 dicembre e quello di chi è ritratto in questa fotografia è un esercizio retorico. Come pure vedere in queste tre figure – un padre giovane, alto, una madre con il capo coperto e un’espressione che non è un sorriso, come sembra, ma l’incredulità di fronte alla salvezza, e il loro bambino – una sorta di presepe. Ma una storia millenaria a cui l’apocrifo aggiunge dettagli e colore spinge a vedercelo, a vederci un presepe, a disegnarlo come l’ha disegnato il santo di Assisi: un padre terreno, una madre con il capo coperto, un bambino, un riparo di fortuna, inaspettato. Il bue e l’asino sono un’invenzione posticcia; non il calore del loro fiato – se, come racconta Luca, il bambino fu avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia: «perché non c’era posto per loro nell’albergo». Non c’era posto per loro. Dovesse essere sfrondata della sua logica divina, resta una storia di gente in fuga, di gente spaesata. Viandanti nella notte.
«Oggi è nato per voi il Salvatore», dicono gli angeli. Ma, intanto, c’è qualcuno che lo salva. Qualcuno che salva il figlio dell’Uomo.
Duemila anni fa e l’altra mattina, sul presto, qualcuno salvava il figlio di un uomo. Strappandolo per un soffio, per un caso, per una ostinazione, alla folla dei sommersi. Sommersi, letteralmente: come i cadaveri di ventotto migranti ritrovati su una spiaggia della costa libica. La differenza radicale di cui ha parlato Primo Levi nel suo libro più importante, “I sommersi e i salvati”. Resta una «vergogna più vasta, la vergogna del mondo»; non riguarda colpe commesse direttamente. E tuttavia è irrevocabile, dimostra che «l’uomo, il genere umano, noi insomma, eravamo potenzialmente capaci di costruire una mole infinita di dolore; e che il dolore è la sola forza che si crei dal nulla, senza spesa e senza fatica. Basta non vedere, non ascoltare, non fare».
Oppure, al contrario – intanto – provare a salvare il figlio di un uomo.
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