Migranti, perché la crisi umanitaria non ci tocca?
DI GAD LERNER
Non penso certo di essere migliore, né tantomeno più buono di chi mi legge. Solo vorrei che insieme rispondessimo sinceramente a una domanda brutale: perché non ce ne frega niente dei 10 africani morti d’asfissia martedì scorso nel Canale di Sicilia, rimasti schiacciati dalla calca degli altri 186 che la nave di Medici senza Frontiere è riuscita a salvare? Perché non ce ne frega niente di quelli che nelle stesse ore morivano assiderati nella pianura bielorussa, magari con un briciolo di attenzione in più concessa alla malasorte del bambino siriano di un anno che qualche giornale ha sentito il dovere di affacciare in prima pagina?
Ok, meglio cambiare tono. A colpevolizzarsi si finisce solo per far retorica a buon mercato, e magari a offendersi. A nessuno piace sentirsi definire cinico o cattivo. Ma la domanda resta: da dove nasce e dove ci porterà l’indifferenza predominante nell’opinione pubblica di fronte a una catastrofe umanitaria che avvolge il nostro continente dallo Stretto di Gibilterra fino alle steppe orientali, passando per la costa meridionale del Mediterraneo e la penisola balcanica? C’è assuefazione, d’accordo. Ci si abitua a tutto, almeno finché la sofferenza altrui si consuma a distanza. Vero è che i governanti si guardano bene dal turbare questa nostra indifferenza, semmai si sforzano di giustificarla. Ci spiegano che la colpa è dei trafficanti di esseri umani e dei dittatori che usano i migranti per minacciarci d’invasione. Confidano di riscuotere il nostro consenso impegnandosi a respingere chi si ammassa ai nostri confini senza avere le carte in regola. Accusano chi tenta di soccorrerli di nascondere i propri secondi fini e gli danno la colpa di illudere quei poveretti, attirandoli in una trappola mortale.
Tutto ciò mi è chiaro, ma ancora non risponde alla domanda: come si spiega tanta indifferenza? Perché di fronte a ogni nuovo fronte di crisi che si apre – ultimo quello che coinvolge la Polonia e le Repubbliche baltiche – l’attenzione si concentra sui risvolti geopolitici, relegando in secondo piano la sorte di quegli sventurati? Ci siamo gingillati troppo nella discussione terminologica intorno a un concetto astratto, il razzismo, che nessuno è più disposto a intestarsi. A parole tutti conveniamo che il valore della vita umana non ammette graduatorie. E nessuno più, tranne pochi fanatici, teorizza l’esistenza di razze inferiori e razze superiori. Eppure, temo che proprio qui si nasconda la convinzione non dichiarabile, imbarazzante ma radicatissima, con la quale dobbiamo ancora fare i conti dentro a noi stessi. Non è facile sbarazzarsi del senso comune sedimentato in secoli, millenni di storia, secondo cui nel mondo convivono uomini e sottouomini, sicché metterli alla pari sarebbe solo una forzatura intellettuale artificiosa, contraddetta dalla realtà. Fatichiamo, insomma, ad accettare che i profughi disposti a rischiare la pelle, e a farla rischiare ai loro figli, pur di raggiungere le zone più ricche del pianeta, siano davvero persone come noi che vi abitiamo. Gli antichi li chiamavano barbari. I nazisti, più di recente, untermensch. Cioè per l’appunto sub-umani, sottouomini. Nell’età contemporanea ci siamo proibiti di ricorrere a una simile terminologia, ma nell’intimo quella sensazione è dura da sradicare. Ne muoiono a migliaia per raggiungerci. Quelli che ce la fanno accettano di buon grado – per loro è già un miglioramento – di venir ammassati in centri di raccolta inospitali. Pur di sopravvivere, svolgono lavori con retribuzioni miserabili (il che ci fa comodo) e senza diritti civili riconosciuti. Anche questa loro predisposizione alla subalternità contribuisce a farceli percepire come esseri inferiori, selvaggi da allontanare o, laddove serve, da assoggettare.
Mi è servito a chiarirmi le idee il libro che Francesco Filippi ha dedicato all’eredità culturale del colonialismo italiano: Noi però gli abbiamo costruito i ponti. Le colonie italiane tra bugie, razzismo e amnesie (Bollati Boringhieri). A differenza che nel Regno Unito, in Francia, in Belgio, dove i processi di decolonizzazione furono meno frettolosi e diedero vita già nel dopoguerra a vaste comunità immigrate, l’Italia non ha mai fatto veramente i conti con la storia del suo Impero straccione. Semmai, col vittimismo che la Grande Proletaria non ha mai smesso di coltivare, a lungo è serpeggiato un atteggiamento di rimprovero nei confronti delle popolazioni che eravamo andati a civilizzare e che, strano a dirsi, non ce ne sono affatto grate. Una mentalità forgiata nel tempo, alimentata dalla rimozione dei crimini di guerra perpetrati in Libia e in Etiopia.
Può succedere così che se un bambino muore di freddo lungo il viaggio ci venga spontaneo darne la colpa ai genitori irresponsabili o a Lukashenko. Il pensiero che lo si poteva, lo si doveva soccorrere per tempo, viene solo dopo.
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