Ora Bonomi finalmente è felice, il Sussidistan non esiste più, o meglio: è divenuto terreno confindustriale. A quando la risposta alla madre di tutte le domande: a quale branchia di nazione appartengono i ribaldi che ci trafugano ogni anno 120 miliardi in evasioni di imposte?
Sorridi Carletto che il Dragone sembra che pensi (quasi) solo a te!
Ora sì che c’è la “visione”: 50 miliardi alle imprese
di Carlo Di Foggia
A gennaio – governo Conte-2 – la Confindustria di Carlo Bonomi lanciò il grido di dolore: “Il Recovery Plan italiano manca di una visione di politica industriale”. Oggi non si sa se la visione sia stata trovata, a ogni modo Bonomi non se ne duole più e, a guardare i numeri, non si capisce neanche perché lo facesse prima: quasi 50 miliardi di euro arriverà alle imprese attraverso il Piano di ripresa e resilienza e la sua parte “extra” prevista dal governo Draghi con i fondi complementari. E questo senza considerare i nuovi 10 miliardi previsti per le grandi opere ferroviarie, che certo non dispiacciono a Confindustria.
Il Recovery Plan in tutto vale 191 miliardi fino al 2026 (più 15 del programma React Eu). Il piano aggiornato dal governo Draghi spiega che quasi il 19% dei fondi stanziati attraverso le 6 missioni (e le 16 componenti) sono “trasferimenti alle imprese”, via sussidio. A spanne parliamo di quasi 35 miliardi (in lieve calo rispetto al vecchio piano, dove venivano cifrati in maniera poco chiara). È la voce più rilevante dopo gli investimenti in costruzioni (32,6%), vale quattro volte i trasferimenti alle famiglie (5%) e più del doppio degli investimenti in ricerca e sviluppo (6,2%, in cui non è chiaro se una quota andrà alle imprese). Il grosso è costituito dal Piano “transizione 4.0” all’interno della missione 1 (“digitalizzazione, innovazione competitività e cultura”), cioè crediti di imposta per gli investimenti in beni tecnologici. Nel Pnrr vale 14 miliardi ed è la spesa più elevata per singola voce per buona parte della durata del piano, sicuramente fino al 2023: 1,7 miliardi quest’anno, 4,2 il prossimo e 5 miliardi alla fine del triennio. Il Tesoro prevede che questo tipo di sussidi verrà usato mediamente da 15 mila imprese ogni anno per la parte beni materiale immateriali e 10 mila per ricerca, sviluppo e innovazione. Tra queste ci sono anche le “imprese editoriali”. Considerato il fondo gestito dalla pubblica Simest per “l’internazionalizzazione” delle imprese, solo quest’anno si superano i 3 miliardi, sui 13 totali del piano. Queste cifre sono “trasferimenti”, non comprendono i progetti che comunque verranno realizzati da aziende. Dei 6 miliardi per le politiche attive del lavoro, solo per fare un esempio, una parte andrà alle agenzie private.
In generale la distribuzione dei sussidi passa da molte voci (come la banda ultralarga e il 5G), e attraversa diverse emissioni: vale il 40% delle risorse addizionali della missione 1 (Digitale), il 23% della 2 (Transizione ecologica) e l’11,5% della 4 (Istruzione e ricerca), quest’ultima costruita molto sul partenariato pubblico-privato sia nell’università che nel potenziamento delle istituti professionali. Parliamo di risorse “aggiuntive”, cioè della componente “sovvenzioni” del Pnrr e non di quella dei prestiti sostitutivi di finanziamenti esistenti: soldi tutti nuovi.
Il Pnrr, però, da solo non assorbe tutta la voce. A fine aprile il governo ha approvato il decreto che stanzia 30 miliardi del fondo complementare che affiancherà il Recovery e altri 25 di extra-deficit aggiuntivo. Qui trovano spazio, fino al 2026, altri 13 miliardi per finanziare la quota di “transizione 4.0” esclusa dal Pnrr da Bruxelles perché non rispondeva al criterio di “non arrecare un danno significativo agli obiettivi ambientali”, visto che sono misure inquinanti. Lo stesso decreto stanzia poi 10 miliardi per la nuova (e sprovvista di qualsiasi progetto approvato) alta velocità ferroviaria Salerno-Reggio Calabria. A suo modo, è una visione di politica industriale anch’essa.
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