Incontri al buio
di Marco Travaglio
Se nascerà, il governo Draghi sarà giudicato dal Fatto come tutti gli altri: ne valuteremo maggioranza, ministri e scelte in base alle nostre convinzioni, senza pregiudizi né positivi né negativi, non avendo nulla da guadagnare né da perdere. Al momento, del “governo di alto profilo” incautamente evocato da Mattarella (come se gli altri tre da lui nominati fossero scartine), si conosce solo il curriculum del premier incaricato, che il profilo ce l’ha altissimo. Ma come banchiere: come politico è tutto da scoprire e inventare. E non è un demiurgo che crea maggioranze dal nulla, in un Parlamento che resta sempre lo stesso.
Draghi. Fino a domenica, chi lo sondava per proporgli Palazzo Chigi veniva respinto da cortesi ma fermi dinieghi. Dunque chi da tempo aveva concepito il piano Draghi – l’Innominabile, B.&Letta, la Lega di Giorgetti, le quinte colonne renziane nel Pd e i loro mandanti dell’alta finanza – confidava nella professionalità di Demolition Man a sfasciare la maggioranza giallorosa e nel “patriottismo” di Draghi l’avrebbe spinto alla fine a raccogliere l’estremo grido di dolore di Mattarella da un palazzo in macerie. Ma, al netto della buona fede che gli va riconosciuta fino a prova contraria, l’uomo non è un ingenuo e sa bene a cosa va incontro: un governo che farebbe esplodere il centrodestra e i giallorosa e si reggerebbe sulla nobile figura di un pregiudicato, sul sostegno sbiadito del Pd e soprattutto sull’appoggio (si fa per dire) dei due Matteo, gli sfasciacarrozze più inaffidabili del pianeta che han rovesciato gli ultimi due esecutivi: l’uno decisivo (Salvini, sempreché alla fine ci stia) e l’altro superfluo (l’Innominabile). Con il partito di maggioranza relativa (M5S) e quello della leader emergente (FdI) all’opposizione. E con le prevedibili risse su Mes, Quota 100, Ue, chiusure anti-Covid, disastri lombardi ecc. Francamente, non vorremmo essere nei suoi panni. Ma, se lo fossimo, correremmo al Quirinale a rimettere il mandato.
Mattarella. Ha gestito la crisi, come tutta la sua presidenza, da arbitro imparziale: l’opposto di Napolitano. Ma con due eccezioni, segno di una fragilità che nelle emergenze lo porta a perdere la bussola e a compiere decisioni avventate al limite della temerarietà. Cioè a napolitanizzarsi. Accadde nel maggio 2018 quando, visto il nome dell’innocuo professor Savona nella lista dei ministri del Conte-1,mandò a casa la maggioranza gialloverde che univa i due vincitori delle elezioni e incaricò tal Cottarelli, mai citato da alcuno nelle consultazioni. È riaccaduto l’altra sera, quando ha convocato Draghi senza che nessun partito gliel’avesse chiesto. Per giunta al buio, esponendolo a rischi enormi e mostrando che le consultazioni sono puro teatro. Poi ha detto cose che, se le avesse dette dopo le dimissioni di Conte (che non ha ancora accettato) rinviandolo alle Camere (che gli avevano appena dato la fiducia), gli avrebbero garantito la maggioranza assoluta anche in Senato: “O questo governo o si vota”. E ha contraddetto tutti i moniti degli ultimi mesi: “Dopo Conte, c’è solo il voto”, “Non si cambiano i generali durante una guerra”. Salvo cambiarli tutti senza passare per le urne.
Conte. La sua cacciata era scritta fin dal giorno del suo maggior successo: il 21 luglio 2020 quando, dopo due giorni e due notti di trattative, vinse la battaglia a Bruxelles contro i “frugali” e portò a casa 209 miliardi di Recovery, 36 più del previsto, mentre tutti scommettevano sulla débâcle. Da allora fu chiaro che i poteri marci con giornaloni e burattini in Parlamento avrebbero fatto di tutto per impedire che a gestire quel tesoro fosse un governo perbene, per giunta il più progressista e “sociale” mai visto.
Centrodestra. Non è mai esistito: FI sta con Draghi, la Lega quasi, FdI contro. La Meloni mette la freccia per il sorpasso.
5 Stelle. Non possono che stare, civilmente e non sguaiatamente, all’opposizione di un governo nato dalla decapitazione del loro premier per buttarli fuori, a opera di un irresponsabile che, compiuta la missione, nel governo tecnico scomparirà. Ma sarà comunque in maggioranza, rendendola incompatibile con il M5S (che dovrebbe ciucciarsi anche B.). Prima o poi si andrà a votare e i 5Stelle sarebbero suicidi a passare per quelli che votarono tre governi pur di restare al potere. Un conto è mantenere il proprio premier e i propri ministri per fare e difendere le proprie riforme, anche con alleati diversi. Un altro è il “Franza o Spagna purché se magna”.
Pd. Con la fermezza di un budino, è passato da “o Conte o elezioni” a “o Draghi o Draghi”. Sarebbe un triste spasso vederlo votare a braccetto con B., con l’Innominabile e forse persino con la Lega, cioè con gli avversari anziché con gli alleati. Restando compatti, potrebbero convincere Draghi a rinunciare all’avventura al buio in Parlamento con pessime compagnie e il solito viavai di “responsabili”, magari sfruttando il suo patriottismo per quella cabina di regia sul Recovery che, essa sì, richiede tecnici di vaglia. Andando in ordine sparso, invece, sfascerebbero l’alleanza giallorosa, l’unica che può competere col centrodestra. E, con l’ennesima piroetta che già scatena le proteste della base sui social, donerebbero altro sangue ai tecnici quirinalizi, non bastando la trasfusione Monti. A questo punto, perché non diventare una filiale dell’Avis?
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