Essere popolari e non saperlo
di Michele Serra
Sono abbastanza vecchio da ricordare le polemiche quando Natta, segretario del Pci dopo Berlinguer, andò a farsi intervistare da Raffaella Carrà.
Cominciava a profilarsi già allora, nei fatidici Ottanta del secolo scorso, quello che è uno dei grandi drammi della sinistra contemporanea: la comunicazione.
A quel vecchio episodio ho ripensato leggendo del tweet di Zingaretti in favore di Barbara D’Urso, che "ha portato la voce della politica vicino alle persone". Detto che Carrà sta a D’Urso come Borges sta a Pupo (parentesi: Carrà, nel suo salottino con vaso di fagioli, intervistò anche Borges, anche se nessuno se ne ricorda), ritrovo nel tweet di Zingaretti lo stesso impaccio, la stessa impotenza che cominciava a profilarsi già allora.
Cresciuta nel mito della complessità e della cultura — mito che, a conti fatti, ha una sua irriducibile dignità — la sinistra si sentì esclusa dai meccanismi semplificati eppure seduttivi della televisione e del marketing: gli stessi meccanismi che portarono al potere Berlusconi. Annaspando, cercò e non trovò in quella lingua altrui, in quei luoghi non suoi, la convinzione di essere "popolare", che in altri tempi e in altri luoghi non ebbe mai bisogno di vidimazione. Sapeva di esserlo, anzi lo era, e tanto le bastava.
Anche Zingaretti è popolare, e lo è oggettivamente. Ha una caterva di voti.
Potrebbe fare senza D’Urso, che con tutto il rispetto incarna il livello più basso non solo della comunicazione politica, ma della comunicazione tout court . Perché non lo fa?
Perché ha perduto, come la sinistra quasi al completo, la coscienza dei propri mezzi.
Altro che "puzza sotto il naso". È complesso di inferiorità in piena regola.
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