Una perversione chiamata mafia nella solitudine del Mezzogiorno
di Isaia Sales
Oggi in tanti richiamano l’attenzione sul pericolo che le mafie possano diventare protagoniste della complicata fase economica che si è aperta con la pandemia. A volte anche con qualche esagerazione. Ma c’è stato un lungo periodo storico in cui non pochi studiosi, diversi esponenti politici e addirittura una parte consistente della magistratura, ritenevano che le mafie non esistessero come organizzazioni strutturate e che tutt’al più fossero solo espressione di un carattere bollente degli abitanti di alcune regioni meridionali, di una loro arcaica e personale concezione della giustizia. E quando a partire dalla seconda metà degli anni ottanta del Novecento è entrata sulla scena politico-giudiziaria l’antimafia, cioè una risposta finalmente adeguata sul piano legislativo/ repressivo, essa è stata sempre guardata con sospetto e diffidenza da ampi settori della politica, della stessa magistratura e anche della pubblica opinione. Non è stato facile (e non lo è ancora oggi) far capire che le mafie non sono forme criminali fisiologiche come ce ne sono state nel passato e ce ne saranno nel futuro.
Quando si analizzano le cifre di questo originale fenomeno criminale, si resta impressionati dallo stretto rapporto con la società circostante, con la politica nazionale e locale, con gli esponenti del mondo imprenditoriale e delle professioni, con le forze dell’ordine e spesso con uomini di chiesa. I mafiosi sono i primi criminali nella storia che hanno trasformato la loro violenza in potere stabile e duraturo attraverso le relazioni intrecciate con coloro che avrebbero dovuto isolarli, contrastarli e reprimerli. La loro storia non può essere affatto separata dalla storia delle classi dirigenti del nostro Paese. Semplici organizzazioni criminali, infatti, non sarebbero riuscite a durare tanto a lungo né tantomeno a raggiungere un tale potere se non nel quadro di reciproche relazioni con il mondo politico-istituzionale che ad esse si sarebbe dovuto contrapporre. Sono i dati a consolidare questo convincimento.
Migliaia e migliaia di morti ammazzati dal 1861 in poi, di cui almeno 10.000 negli ultimi 30 anni del Novecento. Almeno 1000 civili caduti, tra cui 84 donne e 71 bambini. Centinaia e centinaia di imprenditori, commercianti, sindaci, amministratori locali uccisi. Settanta tra sindacalisti e capilega ammazzati tra il 1905 e il 1966. Quindici magistrati uccisi (più dei 10 caduti per mano dei terroristi rossi e neri), e centinaia di vittime tra le forze dell’ordine, tra cui diversi in attentati mirati. Nove giornalisti ammazzati, tanti ancora oggi minacciati e intimiditi. Secondo i calcoli di Enrico Deaglio, a Palermo e provincia solo tra il 1981 e il 1983 ci sono stati più di 1000 morti. A Napoli, Caserta e Salerno si sono verificati 1598 omicidi solo tra il 1975 e il 1985. A Catania 1000 e a Reggio Calabria 2000 nel periodo 1980/1993. E la mattanza è continuata tra la fine del Novecento ad oggi con altri 3000 delitti commessi nonostante l’enorme calo registratosi in Sicilia. E non sono mancati delitti di mafia al Centro- Nord (il primo eccellente è quello del magistrato Bruno Caccia a Torino nel 1983) con Lombardia, Piemonte, Liguria ed Emilia- Romagna che hanno assunto un ruolo centrale negli equilibri mafiosi, in particolare di quelli ?dranghetisti. La nazionalizzazione delle mafie, cioè il loro vasto radicamento nel Centro-Nord, è sicuramente il fenomeno politico-criminale più significativo dell’ultimo trentennio.
Dal 2004 al 2020 sono stati arrestati 76.600 affiliati alle diverse organizzazioni mafiose, di cui almeno 10.000 condannati a lunghi anni di carcere; 759 sono oggi reclusi al 41 bis, il carcere speciale per i mafiosi. È stata adottata una legislazione speciale che non ha analogie in nessun’altra nazione in tempi di pace. Ben 209.108 sono i beni interessati a misure di sequestro e confisca per un valore di 21,7 miliardi di euro, di cui 97.378 immobili e ben 15.059 aziende. Ci sono stati, infine, ben 352 decreti di scioglimento di comuni (tra cui una città capoluogo, una Provincia e diverse aziende che gestiscono la sanità pubblica) in cui il nemico ha fortemente condizionato la gestione della vita amministrativa di intere comunità.
Sono solo alcune cifre di una tragedia nazionale che non è finita affatto e che continua con almeno 10.000 soldati di questo esercito criminale ancora in azione, che continua a detenere una forza economica impressionante. Il ministero dell’Interno, in un recente studio, ha stimato le attuali entrate economiche della camorra in 3750 milioni di euro, quelle della ?drangheta in 3491, mentre Cosa Nostra si attesta a 1874 milioni di euro e la criminalità pugliese a 1124.
Ciò che colpisce delle mafie è, appunto, la loro lunga durata storica, una presenza che si protrae inarrestabile da due secoli, dai Borbone allo Stato unitario, sopravvivendo al fascismo e ripresentandosi in grande stile nel secondo dopoguerra fino a segnare alcuni dei tratti fondamentali della nostra storia contemporanea. Le mafie sono una forma di arcaicità che ha avuto successo, un residuo feudale che si è trovato a proprio agio nella contemporaneità. Un caso di assoluta originalità e di apparente inspiegabilità: potremmo definirla la più impressionante dinamica della permanenza (per usare le parole di Lucio Caracciolo) nella storia e nella società italiane. Come mai hanno resistito tanto a lungo? Come mai non sono state eliminate nonostante la fortissima repressione a cui sono state sottoposte negli ultimi tre decenni e mezzo dopo aver goduto di più di un secolo di una incredibile impunità?
Tutte le forme criminali che hanno contrapposto il loro potere armato allo Stato moderno sono state sconfitte. L’Italia post unitaria sradicò il brigantaggio in meno di un decennio (causando più morti di tutte le guerre di indipendenza messe insieme). Nel secondo dopoguerra ha debellato il terrorismo etnico in Alto Adige, il separatismo siciliano, il terrorismo politico delle Brigate Rosse e dei neofascisti, il banditismo in Sardegna, i sequestri di persona. Le mafie no.
È imparagonabile, ad esempio, ciò che l’Italia ha fatto contro il terrorismo p olitico tra gli anni ’70/’80 del Novecento (che aveva causato un numero di vittime inferiore a 100, escludendo le stragi) rispetto a ciò che ha fatto contro le mafie. Anzi la lotta al terrorismo politico fece passare sotto silenzio in quegli anni il problema delle mafie al Sud. I migliori investigatori furono usati contro le Brigate Rosse. E fu proprio in quel periodo che la mafia siciliana, indisturbata, aprì delle proprie raffinerie di droga nell’isola e assunse un ruolo centrale nel narcotraffico internazionale e, contemporaneamente, i clan camorristici e le ?drine calabresi divennero protagonisti sulla scena criminale. Ma perché lo Stato è apparso efficiente contro il terrorismo (e contro le precedenti forme criminali) e non contro le mafie? La risposta è molto semplice. I terroristi erano esterni allo Stato, volevano abbatterlo. I mafiosi no, non sono in guerra contro di esso, o in ogni caso non sentono lo Stato avversario, ma solo singoli uomini che lo rappresentano. Inoltre, il terrorismo in genere non è una componente dell’economia mentre le mafie sì. L’economia criminale è contro le leggi dello Stato ma non contro quelle di mercato. Il ricorso ai mafiosi negli affari comincia a presentarsi come una risposta strutturale alle esigenze di una parte dell’economia di mercato.
Tutto ciò ci porta a dire che vanno espulse dal lessico pubblico sulle mafie tre valutazioni sbagliate: che c’è stata una vera guerra tra Stato italiano e mafie; che le mafie rappresentano un antistato; che esse sono espressione di una arretratezza economica.
La lotta alle mafie è un campo dove il linguaggio militare non ha nessuna efficacia per spiegarne gli interessi in gioco, seguirne gli andamenti e individuare i contendenti. Questa lotta ha sicuramente i tratti di una guerra civile perché i soldati sono italiani, e di una guerra totale perché miete vittime da più di un secolo e mezzo e ultimamente in tutto il territorio nazionale. Ma le analogie con la guerra si fermano qui. D’altra parte l’impegno repressivo dello Stato è cominciato seriamente solo qualche decennio fa e in diversi territori si può tranquillamente affermare che si è a lungo protratto un duopolio nell’uso della violenza e un duopolio della tassazione (tasse allo Stato e pizzo alle mafie). E poi, che guerra è questa se i nemici spesso sono amici? Se i nemici con i loro voti hanno contribuito a fare eleggere in ruoli istituzionali i loro amici? E se il nemico è foraggiato con i soldi che lo Stato investe nei lavori pubblici? Che guerra è questa se le attività economiche illegali (contrabbando di sigarette, prostituzione e traffico di droga) fanno parte ufficialmente del Pil nazionale, concorrono cioè alla ricchezza del Paese? Che guerra è questa se il nemico si rafforza economicamente spostandosi tranquillamente da un territorio all’altro, si radica nel Centro-Nord e lì costruisce nuove casematte di consenso? Insomma, non è affatto una guerra quella in cui i nemici dichiarati hanno relazioni permanenti con coloro che dovrebbero combatterli!
Scriveva argutamente Giovanni Falcone: «Il dialogo Stato-Mafia, con gli alti e bassi tra i due ordinamenti, dimostra chiaramente che Cosa nostra non è un anti- Stato, ma piuttosto una organizzazione parallela», un potere riconosciuto e legittimato nel corso del tempo da chi il potere istituzionale lo esercita ufficialmente. Se è esistita una politica senza mafia, non è mai capitato che si consolidasse un potere mafioso senza un rapporto con la politica e le istituzioni. Esistono Stati senza mafie, ma mai una mafia che non utilizzi i rapporti con lo Stato e i suoi rappresentanti.
Purtroppo il rapporto perverso tra violenza e potere non è stato mai risolto definitivamente in Italia. È questo uno dei buchi neri della nostra democrazia e della nostra fragile statualità. Il canone del potere in Italia sembra oscillare tra giustificazione della violenza, furbizia e spregiudicatezza, tra Il Principe di Machiavelli e Todo modo di Sciascia. Girolamo Li Causi, il dirigente comunista siciliano che la lotta alla mafia la fece in prima persona, diceva: «Se vuoi capire l’Italia, studia la mafia, interrogati sul suo successo ». E aveva ragione.
Si possono combattere le mafie senza leggi speciali? E senza mettere in campo una reazione più ampia di quella militare-repressiva? Coniugare diritti fondamentali con l’esigenza che lo Stato faccia sul serio lo Stato è una questione aperta e non banale. Ma se la sfida si pone a questa altezza è necessario rivedere alcuni cardini della strategia contro le mafie. A partire dalla norma sullo scioglimento dei consigli comunali: c’è una discrezionalità troppo ampia nella sua applicazione, i funzionari prefettizi non sempre sono all’altezza dei compiti loro assegnati come commissari, in molte realtà gli organi dello Stato appaiono inflessibili più verso i piccoli comuni che verso i grandi. Quando poi si arriva a constatare che ben 78 comuni sono stati sciolti più di una volta, e a volte per ben tre volte (e si potrebbe arrivare addirittura alla quarta!) vuol dire che la legge non è più efficace. Le leggi in genere devono fornire senso dello Stato non paura dello Stato agli amministratori onesti, altrimenti si arriva ad una eterogenesi dei fini: si allontanano i migliori dalla politica locale. Così come si deve radicalmente cambiare passo nell’utilizzo dei beni confiscati, dando la massima attenzione agli aspetti economici della questione: su migliaia di imprese confiscate pochissime sono state rimesse sul mercato. È impressionante la sproporzione tra il valore della ricchezza sottratta ai mafiosi e il ritorno economico per i territori interessati. Finora non è stato dimostrato (nonostante encomiabili eccezioni) che sottraendo i soldi alle mafie si aumenta la ricchezza collettiva.
La lotta antimafia non è un pallino di orde di fanatici che si sono inventati un pericolo che non c’è o che l’hanno ad arte esagerato. E in ogni caso meglio un eccesso di attenzione alle mafie che quel negazionismo su di esse che ha segnato i primi trent’ anni dell’Italia repubblicana. Caratteristica del movimento antimafia negli ultimi decenni è l’affiancamento a chi è preposto all’azione di contrasto di un originale movimento d’opinione prima inesistente. Che questo affiancamento civile abbia potuto generare forme di fanatismo, o di disconoscimento delle garanzie minime di uno Stato di diritto, è fuori dubbio. E vanno assolutamente riportate a sobrietà tutte le persone che operano nel campo, a partire dai magistrati. Ma non si può rimpiangere minimamente la situazione precedente.
Per esempio, come non si fa a cogliere il valore dirompente dell’organizzazione dei familiari delle vittime. Il dolore privato si è trasformato in dolore pubblico, rompendo un altro tabù in base al quale la morte violenta doveva essere tenuta dentro le pareti domestiche. I familiari hanno invertito la rassegnazione e la dimensione privata delle loro tragedie, spingendo le istituzioni a intitolare strade, aule, biblioteche ai loro cari caduti, scrivendo biografie, ispirando mostre, romanzi, film, opere teatrali, canzoni. Sulla base di esperienze fatte in altri contesti (le madri e le nonne dei desaparecidos in Argentina e in Cile) il movimento antimafia si è impegnato a che nessuna vittima innocente debba essere dimenticata. E quando il dolore privato si espone sulla scena pubblica ci possono essere eccessi e qualche protagonismo di troppo (dovuto anche alla non totale elaborazione del lutto da parte di alcuni familiari). Ma meglio il valore dirompente e a volte non equilibrato del dolore pubblico che la rassegnazione privata. Nel Sud tutto ciò è ancora più significativo perché si è dimostrato che in queste terre ci sono state sì le mafie, ma anche chi le ha combattute. In Italia gli eroi civili del secondo dopoguerra sono quasi tutti meridionali, e la lotta antimafia rappresenta il più originale contributo della società civile meridionale ai valori condivisi della nazione.
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