venerdì 17 luglio 2020

Scena


La sera stava sopravanzando, la paglia rimpicciolendo, le note in AirPods del Boss trastullavano cuore e mente, i giardini sfiniti dalle minzioni canine non vedevano l’ora di riposare nella solitudine agognata dall’alba. Ad un certo punto, quasi che tristezza e desolazione si fossero date appuntamento, ecco apparire un uomo con in braccio una bimba, probabilmente sua figlia. Apparentemente appariva dimesso, con sguardo strano che, lo avrei capito dopo non molto, lasciava presagire un astio verso il marciare inalterabile delle lancette del tempo, una degustazione di quegli attimi che dovrebbe far scuola a chi, come me, sperpera troppo tempo, idealizzato nel lancio di tappi nella botte di whiskyeana memoria; costui si stringeva la bimba al cuore, sorridendo ogniqualvolta il volto della piccola gli si accostava agli atri vitali, quasi fosse un innesco di default. La musica in coclee ostacolava la comprensione dell’inusuale e non per questo desolante attimo di quotidianità in pubblico giardino; tolti gli auricolari mi è stato chiaro del perché di quelle affettuosità attaccanti l’animo di un casuale spettatore come me: dietro di lui, a circa un centinaio di metri, era seduta su una panchina una giovane donna in jeans e maglietta bianca, con la carrozzina vuota a certificare un ruolo ben definito nel proscenio. Sbraitava, bestemmiando pure, all’indirizzo dell’uomo, gracchiandogli che erano già le nove di sera, che era tardi, che era stufa. L’uomo, ritornando da lei con un passo rallentato, tipo sbarco sulla Luna, non diceva nulla, proiettato probabilmente già al futuro incontro con la bimba, e dopo averla rimessa seduta nel passeggino, senza salutare la ragazza, si è incamminato per una destinazione diversa da loro, mentre la bimba lo guardava silente ed imbronciata innaturalmente e, probabilmente, inerme sconfitta di questa scena di cui non m’importa conoscere cause e motivi.

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