domenica 14 giugno 2020

Materializzazione


Se dovessi visualizzare l'impalpabile definizione "poteri forti" non avrei dubbi su chi me lo materializza nel comparto "giornaloni": lui, ora servente la grande causa della Famigliola Sabauda. 


Pizzini e retorica 


di Francesco Merlo


Cosa rimane del gran debutto degli Stati Generali? Il recinto del potere, l’Italia che governa l’Italia nascondendosi all’Italia, la processione di autoblu e di scorte armate, l’informazione ridotta ai pizzini di Casalino, le immagini preconfezionate per i tg a reti unificate. Poi alle 18 una breve conferenza stampa con un’autocelebrazione davvero imbarazzante: «siamo stati d’esempio », «ci è stato riconosciuto di avere indirettamente salvato vite umane in Europa». E via con l’elogio del proprio coraggio, della propria ambizione, «non ci accontenteremo della normalità». E mai una sola giornata sarà sottratta al servizio del Paese, che è il più vecchio luogo comune della retorica italiana, di Renzi, di Berlusconi, di Andreotti, di Craxi e, arretrando ancora, di Mussolini: tutti lasciavano la luce sempre accesa.
E, manco a dirlo, negli spazi di reality confezionati per noi da Casalino ieri c’era sempre Giuseppe Conte immortalato in mezzo agli ospiti illustri: soddisfatto vip fra i vip, Ursula von der Leyen che sussurra in italiano «l’Europa s’è desta », Christine Lagarde, Sassoli, Gentiloni, Michel, tutti ospiti virtuali. E poi nel pomeriggio il governatore Visco e un bel panel di economisti, incolpevolmente esibiti come la testa d’alce sopra il camino di un club inglese, anche se il modello qui sono i muri delle pizzerie romane dove il pizzaiolo è abbracciato a Bonolis, Totti e Pippo Baudo.
Odiosa, infine, l’evasività di Conte sulla decisione del governo di vendere due navi da guerra all’Egitto offendendo certo Paola e Claudio Regeni e la memoria del loro Giulio, ma soprattutto le enormi questioni di diritto e di libertà che quel nome evoca non solo nel Paese di Al Sisi dove è stato torturato e ucciso. Anche lo slogan “verità per Giulio” è diventato così un pretesto per le solite ritualità italiane.
Probabilmente non era il caso di trattare come un colpo di teatro neppure l’accordo con Germania, Francia e Olanda sul vaccino che, studiato a Oxford, sarà prodotto a Pomezia, in Italia. Il ministro Speranza, accentuando l’ espressione dolente che gli è naturale, sembrava persino a disagio in quel lungo tavolone rettangolare con la tovaglia arancione mentre raccontava di aver firmato un contratto con la società AstraZeneca per 400 milioni di dosi «da destinare a tutta la popolazione europea». Nella cultura di Speranza, che è sempre riuscito a tenere se stesso e il ministero della Sanità fuori dal populismo di governo e dalle incompetenze grilline, il vaccino di cui tutti avranno bisogno dovrebbe essere prodotto come «bene comune» e distribuito a tutti, dovunque. Forse dunque l’argomento andava protetto dalla scenografia fru-fru di quel salone e tenuto lontano dalle lunghe trecce d’edera che - tocco berlusconiano - ornavano il Casino del Bel Respiro. La corsa al vaccino (si parla di mille euro a dose) sta infatti accentuando le diseguaglianze, eccitando i nazionalismi e alimentando conflitti tra Stati e tra popoli. Ieri sembrava invece una di quelle pubblicità che fateci caso - stanno caratterizzando la riapertura dell’Italia e coinvolgono lo yogurt, le automobili e persino la carta igienica: “È prodotto in Italia!”.
Mai come ieri mattina, sfilando sull’invisibile red carpet dell’Aurelia antica, stretta e senza marciapiedi, e subito nascondendosi dentro il casino del Bel Respiro, il nuovo potere italiano aveva mostrato la sua verità di nomenklatura e chissà se lo è diventato a poco a poco o a scatti. Oppure forse c’è stato, nei due lunghi anni di governi dominati dai grillini, un momento fatale che ha cambiato il “contediprima” nel “contedipoi”, e non nel senso del banale trasformismo politico, ma in quello antropologico. Chissà come ha fatto il professore che dilatava i suoi titoli e truccava il suo curriculum universitario a diventare l’uomo solo al comando, fastoso come Berlusconi, spavaldo come Renzi, sapiente nelle promesse e nel Rinvio come Andreotti, e “nazionalista” come Salvini nell’esibizione dei simboli italiani, da padre Pio al tricolore nella cravatta, dalle dichiarazioni d’amore per la Patria identificata con se stesso, sino «alla bellezza ci salverà » di ieri mattina: «abbiamo scelto questa location perché crediamo nella bellezza italiana» dove la password è “location”. Villa Pamphili per lui non è bene comune, opera d’arte, luogo della memoria, parco, ma “location”, una parola che individua il fondale per le cerimonie, il set cinematografico, le scene da matrimonio, la scenografia di questo nuovo potere, il rococò del populismo italiano. Rimane vero che nel parco di Villa Pamphili è stata tagliata l’erba e, per terra, tra gli alberi bellissimi ieri non c’erano più i soliti sacchetti vuoti, le siringhe,le bottiglie di plastica e le cartacce, nonostante siano rimasti rarissimi i cestini dei rifiuti. A Villa Pamphili, che è grandissima, gli habitués si sono accorti solo di questo: «non c’è più la spazzatura» mi dice la signora che raccoglie le foglioline d’edera, «solo le più tenere si possono ripiantare nei vasi». Cani e padroni si riconoscono tra loro, Argo e Medea sono bellissimi, il più disobbediente è Jack: «Er segreto è dargliele sur sedere …». Eh? «Colle mani, dico, mai col bastone». L’anno scorso qualcuno qui uccise una volpe.
Villa Pamphili, si sa, è un posto dell’anima, un florilegio di capricci edilizi in mezzo al bosco. Ora Conte, come l’Adriano della Yourcenar, dice: «Io sono il custode della bellezza». Ma forse andrebbe incoraggiato l’uso statale delle ville e dei parchi di Roma, Colle Oppio e Villa Ada, la Caffarella e Villa Sciarra, Monte Mario e l’Appia Antica … Sarebbe un modo per rimediare, ogni tanto, ai disastri della sindaca Raggi. L’esempio storico virtuoso è quello di Luigi Einaudi che per far restaurare Caprarola, che oggi è una meraviglia dell’umanità, decise di andarci in vacanza. Conte direbbe: la scelse come “location”.
Dunque i giornalisti, gli operatori e i fotografi sono stati tenuti fuori dalla bella “location”, come in un campo profughi, come i baraccati che sulla via Vitellia anche ieri si arrangiavano sotto le mura di villa Pamphili. E infatti sono state diffusi solo video e foto ufficiali, tutte uguali, tutte agiografiche, e l’informazione è diventata un umiliante pissi pissi, un passaparola, con una grande produzione di pizzini. Già al mattino leggo che «il presidente Conte ha detto che…“. Ma come «ha detto» se sono solo le 9.45 e il benvenuto è previsto alla 10.30? Finito il tempo degli arrivi a piedi, in taxi o persino in bici, adesso hanno tutti la macchinona di Stato, l’autista e pure due auto di scorta e quando riconosciamo il faccino di Conte in mascherina «presidente!» gli gridiamo perché anche noi non abbiamo occhi che per lui. Ci guarda, scruta i nostri visi, forse cerca amici che non trova: le porte chiuse, che per l’Italia in quarantena sono state l’odiosa reclusione, ciascuno nel proprio appartamento, qui diventano grottesche autopromozioni, una gran voglia di autocertificarsi come una specie di “gruppo Bilderberg”. Ma ci credono solo i simpatici compagni di Potere al popolo, di Rifondazione comunista, dei Cobas, un centinaio di militanti che ordinatamente sventolano le bandiere rosse già alle nove del mattino: «Mentre ci rubate il futuro fate festa. Saremo noi a farvi perdere la testa». Ecco, gli antagonisti, i ribelli, i rivoluzionari non lo sanno, ma spacciano la medesima allucinazione di Casalino, e cioè che a Villa Pamphili stia nascendo l’imbattibile Contepensiero: i pensieri di Conte come i pensieri di Mao.

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