“L’assurdità è che invece di proteggere i nostri anziani, li abbiamo tenuti chiusi in una scatola con dentro il virus. L’inefficienza e l’irresponsabilità di queste decisioni hanno portato alla morte di mia madre e di molti nostri cari, che erano i più deboli. Li dovevamo difendere e mi sento responsabile anche io”.
Lucio Viola racconta l’incubo vissuto da una moltitudine di italiani che hanno perso genitori e nonni: si sono spenti nel silenzio, isolati da tutti, sepolti nella solitudine prima ancora di morire. Il nostro Paese li ha semplicemente dimenticati. “Tutti questi luoghi completamente abbandonati e deserti. I figli fuggivano lasciando i cadaveri dei genitori”, scriveva Paolo Diacono quindici secoli fa, raccontando la peste che ha decimato l’impero bizantino. E anche noi siamo precipitati in quell’orrore. Un baratro così profondo da spingere a distogliere lo sguardo. “Io non ho più potuto parlare con mia mamma. Al telefono faceva fatica anche a riconoscerci, ci riusciva solo di persona: appena ci vedeva era contentissima e ci veniva incontro con la carrozzella. Perché mia mamma di testa non c’era più, ma poteva vivere ancora”, ricorda Carlo Butera: “L’ho incontrata per l’ultima volta il 27 febbraio, poi il 6 aprile ti vedi arrivare una bara e non sai neanche chi c’è dentro”.
Ci sono tanti spunti per meditare. Fermiamoci qui.Padri e madri, nonne e nonni spariti, come fossero desaparecidos inghiottiti dal terrore. In tutte le regioni, ma particolarmente in Lombardia: la terra della sanità modello e del welfare più efficiente, incapace di tutelare i suoi vecchi dall’epidemia. “Il Covid ha messo tragicamente in luce le mostruose lacerazioni e le disuguaglianze intollerabili di una società che, già prima di questa pandemia, tendeva a trattare le persone ritenute anziane come, direbbe papa Francesco, “scarti””, sentenzia il filosofo Salvatore Veca: “La ghettizzazione della terza età come forma di esilio delle persone dalla comunità è un problema che condividiamo con tutto l’Occidente. Ma quello che è accaduto, in particolare nelle Rsa, è stato un rito sociale di decimazione”.
Una strage nell’oblio che ha falciato più di ventimila esseri umani. Tre mesi fa ci sarebbe sembrato uno scenario incredibile. Invece è avvenuto. E continua ad avvenire: la furia del massacro è rallentata solo a metà maggio, ma non si è fermata. Nelle case di cura e negli ospizi la Fase Uno non è ancora finita. Anzi l’emergenza diventa sempre più dura: il personale è dimezzato, le casse sono vuote, gli ospiti rimangono tagliati fuori dal mondo.
Per questo è necessario capire. Iniziare a ricostruire le dinamiche del massacro. Chiedere se l’eccidio poteva essere evitato e come. Rendersi conto di chi ha peccato; per parole, opere e soprattutto omissioni. Le indagini della magistratura accerteranno le responsabilità penali, ma è facile prevedere processi lunghissimi e esiti incerti. Ci sono però capitoli di questo dramma che si possono già scrivere. Raccontano del sacrificio di medici ed infermieri; di comunità che si sono mobilitate e di sindaci che si sono battuti; di manager che hanno affrontato a testa alta l’epidemia. Ma anche di amministratori pubblici e privati che hanno nascosto la verità, di dirigenti che hanno imposto divieti criminogeni; di giunte regionali che hanno fatto scelte drammaticamente scellerate; di una classe politica che non ha mosso un dito per tutelare i cittadini più fragili di tutti. Quando si parla di assistenza alla terza età, si usa sempre l’immagine di Enea che trasporta sulle spalle il padre Anchise durante l’incendio di Troia. In Italia, davanti alla crisi del millennio, è come se Enea avesse abbandonato Anchise e fosse fuggito a gambe levate.
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