L’anno in cui non siamo stati da nessuna parte
Usiamo la fantasia come mezzo Soltanto così possiamo ripartire
Usiamo la fantasia come mezzo Soltanto così possiamo ripartire
di Gabriele Romagnoli
Eccoci qui. Abbiamo rivoluzionato il mondo. Con la globalizzazione lo abbiamo omologato, in modo che ogni cosa sia possibile ovunque ( sistema di governo o megastore di abbigliamento). Abbiamo ristretto lo spazio e ridotto il tempo: quel che solo 37 anni fa ( Vacanze di Natale, 1983) era il mantra imprenditoriale della velocità: «via della Spiga-hotel Cristallo: due ore, cinquantaquattro minuti e ventisette secondi, Alboreto is nothing » si è tramutato in « breakfast in Rome, lunch in London, dinner in Paris, time is nothing». Poi è arrivato dall’Asia qualcosa di naturale e indomabile: un virus per il quale non avevamo contromisure e contro il quale si è schiantata la storia dei recenti trionfi decretando che il 2020 resti nella memoria collettiva come: l’anno in cui non siamo stati da nessuna parte.
Occorre cambiare strategia, modello di condotta, pensare in modo alternativo, non riproporre quel che si è attuato in altri momenti e condizioni, se si vuole evitare la resa. Chi non può vincere la guerra, combatte la guerriglia: si adatta, scopre nuovi percorsi o ne recupera di vecchi e abbandonati. Davanti a una strada chiusa, anziché forzare il blocco, meglio cercare il sentiero che l’aggira. Sarà più lunga, ci vorrà più tempo, si procederà soli o in piccoli commando. Viaggeremo da fermi, viaggeremo meno, non viaggeremo tutti, ma ecco come possiamo provare a farlo.
Usare la fantasia altrui come mezzo di trasporto è qualcosa che abbiamo già sperimentato con successo varie volte: nell’infanzia, nella solitudine, nei recenti mesi di segregazione. È un usato sicuro: basta sfogliare pagine o accendere schermi. Ogni racconto fruito è un’invenzione di seconda mano, ma con il potere di portarci ovunque non siamo mai stati (e a volte neppure l’autore). Ogni battaglia però si compie nell’estensione del suo campo. Ora si può osare, nei limiti, ma i limiti a volte sono una risorsa. Per le generazioni più recenti il viaggio è tutto quel che si compie nel tempo tra l’arrivo a destinazione e il ritorno. Per quelle precedenti era l’impresa di andare dal luogo di partenza a quello di arrivo. Il termine impresa sottintende: avventura, sforzo, incertezza sull’esito. Tutto questo è stato superato. Il viaggio è divenuto un trasferimento. All’avventura si è sostituita la noia, allo sforzo il fastidio, all’incertezza sull’esito quella sulla puntualità. Su un’impresa si scriveva un libro, durante un trasferimento se ne legge uno. Quando la meta è una città il cosiddetto viaggio consisteva ormai nel replicare in quella la stessa esistenza condotta nella città di partenza ( mangiare, andare a spettacoli, fare acquisti, visitare mostre, conoscere o incontrare persone, ritirarsi in camere all’interno di edifici) con l’unica eccezione dell’assenza del lavoro. Il trasferimento occupava una parte minima del tempo dedicato al resto. Per capire il rapporto bisogna pensare a una storia d’amore in un film: di solito termina quando i due si confessano il loro sentimento o trionfano sulle avversità che l’hanno ostacolato. Il resto è schermo nero. I film d’amore raccontano dunque il viaggio alla vecchia maniera, difficile e accidentato, non il matrimonio, non la permanenza a destinazione. Raccontassero il trasferimento ( un incontro tramite app) durerebbero pochi minuti, sarebbero cortometraggi o filmati per la piattaforma Quibi.
Ora il rapporto si ribalta, torna all’origine: il viaggio è il viaggio. Andare da un punto di partenza a una destinazione qualsiasi ridiventa un’impresa, ridisegnata. Occorre superare limitazioni, rinunciare a trasporti veloci o farlo quando possibile, ma accettando pratiche che li rallentano. Si riattraverseranno stazioni semideserte come quando furono costruite, aeroporti come cattedrali senza fedeli, dai binari si riscoprirà il paesaggio, nei cieli il vuoto. Sulle strade, barriere come se l’Italia non fosse uno stato, ma di stati un insieme. La modernità sarà relegata ai sistemi di orientamento o di comunicazione. In un mondo così ristrutturato può rinascere l’idea di andare a piedi. Di più, di fare un pellegrinaggio, anche laico. Farsi lasciare da un cavallo di ferro a un certo punto e da lì proseguire verso una destinazione scelta e, attenzione, significativa. Ci sono persone che lo fanno da anni, da sempre. Alcuni di loro ( Paolo Rumiz, Enrico Brizzi, sulle orme di Paul Salopek e Bruce Chatwin) poi lo raccontano. O lo si può raccontare a se stessi: l’anno in cui ho camminata da A a B, aggiungendo un motivo. Nell’inverno del 1974 il regista tedesco Werner Herzog, allora trentaduenne, si avviò a piedi dalla sua dimora a Monaco diretto a Parigi, dove la sua amica Lotte Eisner, studiosa di cinema, si era ammalata. Un viaggio, un voto: era persuaso, o voleva persuadersi strada facendo, che quella sua testimonianza d’affetto avrebbe tenuto in vita la persona a lui cara. «A parte questo – aggiunge – volevo essere solo con me stesso». Scoprirà l’estraneità e la contiguità, il fango, il silenzio dell’Europa, l’esistenza dei tanti cani che dai finestrini non si colgono. Sceglierà l’insensatezza sulla finale tentazione della comodità. Scriverà poi Sentieri nel ghiaccio, ma conta che arrivò. Lotte visse ancora. Non certo a causa di questo viaggio. O forse sì. Davvero non esiste un contagio delle volontà?
Scrive Olga Tokarczuk ne I vagabondi: « La meta dei miei pellegrinaggi è sempre un altro pellegrino», «feci il mio primo viaggio attraversando un campo a piedi», « traggo la mia energia dal movimento » , « la storia dei miei viaggi non è altro che la storia di un malessere » . Quattro frasi un programma: un malessere ci ha isolati, rimettiamoci in moto, anche solo per un percorso minimo e facile, al cui traguardo ci sia un altro.
Quel percorso, ecco l’altra novità, verrà affrontato da soli, o al più con il ristretto nucleo familiare. Un commando, che si muove prevalentemente con il proprio mezzo, evita il gruppo dove l’alleato si trasformava facilmente in avversario. Rifugge dal confronto. Elabora una visione originale del limitato mondo a disposizione. Negli ultimi decenni di viaggi conoscere è diventato riconoscere, prendere riprendere e l’intuizione del singolo di fronte all’ignoto è stata plasmata dalla pre-visione di un altro o dalla comitiva d’altri da cui si è circondati. Abbiamo davvero viaggiato nel pianeta com’è o in quello secondo Tony Wheeler, creatore della Lonely Planet, che cristallizzava ogni realtà raccontata? Da quanto non ci bastava più guardare, ma dovevamo fotografare perché altri potessero vedere e, quindi, credere? La guida illustrava, spiegava o non anche tramandava solo una delle tante possibili versioni? Lo sguardo di gruppo non ha piegato la traiettoria degli sguardi individuali? Rieccoci liberi di interpretare, con la possibilità di sbagliare, ma anche quella di capire. Senza gli auricolari, affidati ai nostri sensi.
Quello che ci può aspettare, nel nostro Paese, è una versione 2020 del Grand Tour, il viaggio iniziatico per imparare a vivere, che dal Seicento chi poteva affrontava per conoscere la cultura italiana. Come fecero Mozart e suo padre, le cui strategie sono riproponibili anche in assenza del talento filiale: trasferirsi con ogni mezzo, trovare qualcuno che ospiti, barattare quel che si ha, prendersi tempo. A volte gli insegnamenti migliori vengono dal passato, ma il passato è soltanto un luogo dove non torneremo più: è il futuro a essere una terra straniera. Dove andremo comunque, ognuno con i suoi mezzi, magari arrivando a pezzi. Olga Tokarczuk conclude così il suo viaggio: «Forse rinasceremo e questa volta lo faremo nel luogo e al momento giusto».
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