lunedì 2 marzo 2020

Già i ricordi...


Nel ginepraio della vita, della morte, di tutto il circolo che tendiamo ad ammansire, sviando pensieri sul fine temporale, l'evolversi di un ciclo vitale, ad un certo punto ecco che, preannunciati da secchi e professionali verdetti, iniziano ad apparire nitidi e candidi i ricordi. 
Sono figlio come tutti, appassionatamente vicino ai miei genitori. Mio padre è entrato nella fase critica, nella stanza dell'ineludibile. 
Sono stato fortunato a gustarlo per molto tempo, ci mancherebbe! Sono altresì convinto che questo conti zero. Quello che vale è la conformazione interiore che ti sei dato, che ti hanno dato e che tu, me stesso nel caso specifico, non sei riuscito a limare, aggiustare, sotto certi aspetti, migliorare. 
Passano i ricordi, passano le sensazioni, irrorate come sono da tutti i sensi: il gusto di lui, la sua voce, la pacatezza, l'affrontare la vita sempre con quella compostezza propria e tipica delle brave persone. 
Quando ero piccolo e andavo in campagna un mese con mamma e fratello, lui veniva a trovarci alla domenica, con una scassata Fiat 500 familiare che usava per trasportare la frutta e verdura in negozio. Mi è vivida l'attesa del suo arrivo: mi vedo seduto sulla strada principale, nel rettilineo finale, mentre attendo spasimante lo scorgere dell'auto da lontano, l'impazienza di abbracciarlo, il bacio con cui accoglievo la sua maestosa figura, il "Topolino" sempre da lui donatomi. La corsa a leggerlo, la spensieratezza con cui, grazie alle sue monetine elargitemi, giocavo a biliardino assieme agli amici: e poi il pranzo, i discorsi fatti assieme, il pomeriggio spensierato sino a quando si faceva una certa ora, verso le 18, dove tutto svaniva, scoloriva, scemava per far posto all'assillo della sua prossima partenza, il non rivederlo per altri sette giorni, l'abbraccio, le raccomandazioni, i pianti solitari nel letto lontani dall'udito della mamma, altrimenti incavolata; la corsa al telefono del lunedì per chiamarlo e sentire se il viaggio era andato bene, la sua voce, i suoi baci in cornetta. 
Lo ammetto: avrei dovuto crescere, diventare, come si dice uomo. Invece sono rimasto giovane, definitelo pure bimbo tanto non faccio una piega. 
Quello che stupisce ed è monito per chi ha ancora la fortuna di vedere il padre ritto e camminante, è che i dolori, i dispiaceri inflitti nella cosiddetta fase giovanile rimangono, macerano. E tra questi ci sono pure la noncuranza, il riporre loro in sgabuzzino per la cosiddetta voglia di vivere autonoma. 
Poco tempo fa mi ha ricordato che quando mi veniva a prendere alle scuole elementari con la 500, una volta salito a bordo, mi nascondevo sotto per non farmi vedere dai miei compagni sulla vettura che per lui invece era vanto. 
Me lo ha ricordato perché sicuramente ciò a lui inflisse dispiacere. 
Vorrei tanto che restasse con me. L'unica arma che sto affilando per prepararmi al distacco è quanto tutto ciò attuato per allontanare il momento, faccia parte del mio egoismo, al fine di comprendere che non solo non è procrastinabile, ma è pure il compimento necessario alla vita. M'addolora infinitamente sapere che non potrò più correre al telefono per sapere come sia andato il viaggio. L'ultimo.  

    

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