lunedì 23 settembre 2019

Happy Birthday Boss!




Tanti auguri Bruce!!! Siccome quest’anno è cifra tonda, e che cifra, lascio a Stefano Mannucci di indorare l’evento! See ya up the road Boss!

SPRINGSTEEN
70 anni Boss
IL 23 È IL COMPLEANNO “TONDO” DELLA LEGGENDA VIVENTE DEL ROCK
di Stefano Mannucci

Era notte fonda. Springsteen e la E Street Band avevano suonato a Memphis, il tour trionfale di Born to Run. Bruce saltò su un taxi con Steve Van Zandt. “Andiamo a Graceland”. Davanti al muro della residenza di Presley, notò una luce al 2° piano. Doveva essere Elvis, pensò. Scavalcò, si inoltrò nel vialetto, rischiò una fucilata. Stava per bussare alla porta quando si materializzarono i guardaspalle: Presley era a Lake Tahoe, gli dissero. Presero Bruce per i gomiti e lo accompagnarono fuori: “Ehi, un attimo, sono una rockstar! Sono stato sulla copertina di Time e Newsweek!”, protestò ironicamente. Non gli credettero. Era la primavera del ’76. In un’altra notte di diciannove anni prima, quella dell’Epifania, la vita del bambino Springsteen era cambiata per sempre. Aveva visto Elvis in tv all’Ed Sullivan Show, e intuito che la chitarra può strapparti via dalla solitudine che ti morde l’anima prima ancora che tu divenga grande. Sua madre gliene comprò una. Era salvo: anche se il cane nero della depressione lo avrebbe inseguito sempre, per via di quel papà complicato che non riuscì mai a dirgli “ti voglio bene”, e il figlio, come un Telemaco smarrito, andò a cercarne il fantasma per tutta l’America, mentre quello era ubriaco in cucina.
Bruce, il fratello di sangue di tutti, l’amico fragile e tosto che inietta nei cuori l’energia del rock, l’epos giovanile come la disillusione degli anni maturi, la narrazione scabra dei Grandi Spazi e la vertigine illusoria del viaggio incessante, alla fine del quale troverai, chissà, l’Eldorado prima che i piedi si bagnino nell’oceano. E se scopri che era solo un miraggio, non fermarti, girati e rialza il volume. Metti a nudo lo spirito pieno di cicatrici, senza fare sconti a te stesso. È stato il giovane scapestrato che al volante di una Chevy accelerava per uscire da una città di perdenti: ora che ha 70 anni (il 23 settembre) si è trasformato in un Marlboro Man veggente che cerca segni nell’orizzonte oltre il canyon, in sella a cavalli che lo saldino con il mito americano, il western dove non sei mai l’eroe ma la controfigura che viene presa a pugni e disarcionata, costretta a rialzarsi subito per il prossimo ciak. Dice Springsteen: “I misteri dell’esistenza restano lì e si fanno più profondi. Sono 35 anni che cerco di superare i miei lati distruttivi”, per concludere così: “Quando diventi vecchio il bagaglio che ti porti sulle spalle si fa più pesante”. Ricorda che nessuno “attraversa la vita senza farsi un graffio”. Allora non ti resta molto da fare se non “inoltrarti nell’oscurità, è lì che incontrerai la prossima alba”. Il De Senectute di Springsteen è impietoso e savio, prezioso e dolente: appunti scritti in poche ore insonni davanti alla tv per creare gli intermezzi parlati del suo film Western Stars, che è molto di più della rivisitazione live dei brani dell’ultimo album; le affabulazioni di Western Stars (nelle sale a ottobre e in seguito sarà un disco), con la loro cinematografica folla di losers e ordinary men, tutti incarnati da Bruce, sono un baedeker possibile per affrontare la presunta terza età, quando ne sai più di chiunque ti circondi, hai la faccia intagliata di rughe e il corpo tonico, che reclama un nuovo giro, un altro rodeo rock, folk, country, scegli tu. Perché sai che non ti arrenderai: sei il capobanda che ha spinto milioni di ragazzi on the road da Greetings from Asbury Park fino a Born to run. Hai accettato di diventare dolorosamente adulto da Darkness on the edge of town. Non le hai mandate a dire ai presidenti e all’establishment: Reagan voleva scipparti Born in the Usa come un inno sciovinista, proprio a te che avevi perso il primo batterista, Bart Haynes, in Vietnam; hai visto le Torri Gemelle crollare mentre eri nella tua casa oltre il fiume, e concepito The Rising come un lutto nazionale da metabolizzare, non come una fanfara per guerrafondai; hai inchiodato Bush Jr. e le sue bombe in Devils and dust, hai fatto la foto alla crisi post crollo di Wall Street in Welcome to the wrecking ball, sperando che Obama rimettesse in moto il Sogno. Hai piazzato i cavalli di Frisia di fronte a Trump. Ti sei speso in un’autobiografia senza censure, dove racconti di quando non riuscivi ad alzarti dal letto e volevi solo morire, al tempo di Nebraska. Ti sei preso da solo Broadway per l’autoanalisi con chitarra e piano, e ormai viene il sospetto che tu sia più grande di Dylan, anche se lui era entrato dalla porta principale della Storia degli anni Sessanta. Ti schermisci dicendo che hai “fatto 19 album, e ancora parlo di macchine e ragazze”, e il ventesimo è alle viste, con la macchina perfetta della E Street Band.
Buon compleanno Bruce. La prima volta che ti vidi fu a Lione, il tour di The River, 1981. Mille chilometri in auto, di notte, come suggerivi. Davanti a quel palasport, con le note del soundcheck che arrivavano nel parcheggio, ebbi la certezza che fosse il momento di un battesimo rock’n’roll. E senza dover scavalcare muri, come era capitato a te a Graceland.

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