Uno dei temi che da sempre ha appassionato filosofi e moralisti è il rapporto tra cultura ed esibizionismo, ovvero quanto conta per un pensatore sfoggiare il proprio sapere. Nozionismo, concettismo sono stati da sempre passe-partout usati per accomodarsi nei luoghi di casta dediti all’uso del pensiero per contare nella società, dai salotti francesi del Re Sole a quelli moderni delle signore altolocate romane dei giorni nostri. Lo sfoggio del sapere è inversamente proporzionale all’accrescimento personale, un’arte che permette al privilegiato di possedere una vera visione della vita, della sua caducità, del suo ineludibile termine. Se questo venisse confermato la successiva domanda spontanea sarebbe: quindi chi crede in un’altra vita non è propriamente un saggio? Ovvero: avere una cultura degna e conformata al tempo non dovrebbe far cercare appoggi su eternità e quant’altro?
Difficile esprimersi al proposito: certamente vivere la religione quale ponte continuativo e rasserenante, placante l’ansia insita in ognuno di noi attorno al concetto di “non essere più” è riparo, rifugio non culturalmente consono alla crescita formativa tendente alla piena consapevolezza di sé in rapporto alla collocazione storica e geografica nell’Universo. Altro è partecipare ad un progetto conflittuale pregno di rinunce, di conversioni, di fatica intellettuale atta a ridimensionare il proprio ego, di default tendente alla divinizzazione del “sé”
Cultura, accrescimento filosofico, confronto intellettuale serio per progredire verso la consapevolezza naturale, aborrono qualsiasi nozionismo, concettismo di sorta. Perché da sempre chi arde nell’accrescere il proprio “io” abbraccia necessariamente il fattore agevolante questo desiderio dell’Homo Sapiens: il silenzio. Sssssst!
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